Come ordinare un caffè a Trieste (niente panico!)

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Trieste è la capitale italiana del caffè all’Expo di Milano, con buona pace di Napoli e di altre città d’Italia che potevano a buon diritto ambire al titolo.

Chi è rimasto sgomento e ha gridato all’inciucio, sappia che, in realtà, anche Trieste vanta una tradizione secolare negli ambiti di importazione, lavorazione, distribuzione e consumo di caffè; il punto, semmai, è che, quando a Trieste sono iniziate le suesposte attività relative all’esotica bevanda, la città era in Austria.
Ci si rallegri, dunque, se per una volta l’Italia si è ricordata che c’è vita a est di Venezia.

Se ancora pensate che Trieste non meriti la corona di capitale del caffè, e che qui alle porte dei Balcani manchi il culto della tazzina, probabilmente è perché a Trieste il caffè si chiama in tutti i modi, tranne che “caffè”, e può essere molto complicato ordinarne uno.

Ecco, allora, un pratico vademecum per l’Italiano in visita che cerca di ordinare un caffè a Trieste.

[POST AGGIORNATO]

Quella che segue (in grigio chiaro) è l’introduzione al post originale, scritto nel 2012 in occasione della gara di Coppa Italia di orienteering che si sarebbe tenuta a Gropada il 30 settembre, che il lettore odierno può tranquillamente saltare (ma che non ho il coraggio di tagliare, perché sono una sentimentalona).
La guida per ordinare un caffè a Trieste inizia dopo il prossimo ori-bordino.

 

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Manca

giorno a Gropada 2012.

 

Come faccio ad apparire ancora così tranquilla?
È semplice:
1) Me ne catafotto dell’organizzazione e lascio che il resto della nostra giovane, ma rispettabile, società si sbatta come un tappeto, mentre io sto sdraiata a fissare il soffitto col dito nell’ombelico;
2) Buona parte del blog è programmata per aggiornarsi automaticamente: mentre mi leggete, io sto forsennatamente nascondendo i calzini sporchi sotto il divano.

Dicevamo…

… Chi c’è c’è, chi non c’è si mangerà le mani per tutta la vita.

Tutto è praticamente pronto ed è un miracolo che io sia riuscita a trattenermi dal raccontarvi l’organizzazione minuto per minuto, finendo col rivelare qualcosa di cruciale sulla carta e la disposizione dei punti e infrangendo, così, una dozzina di articoli del regolamento, con conseguente scomunica dell’intera nostra giovane società, che a quel punto sarebbe stato difficile definire ancora rispettabile.

Chi c’è, magari, approfitta per fare un giro in città, durante il quale, magari, fa una sosta per bere un caffè.
Magari l’atleta crede che sia sufficiente entrare, salutare e domandare, per l’appunto, un caffè.
Seee, magari!

Non avete compiuto alcuna impresa, nella vostra dissipata vita di orientisti, se non siete entrati in un caffè a Trieste e non siete riusciti a farvi dare quello che desideravate.
C’è gente che ha ordinato un caffè nel Settantasei ed è ancora in analisi, ma non temete: con il mio aiuto potrete farcela.

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Come ordinare un caffè a Trieste

riuscendo addirittura a farsi servire quello che si desidera.

 

Diciamolo subito: a Trieste vengono serviti tanti tipi di caffè, talmente tanti che, se uno butta là una parola a caso, è altamente probabile che corrisponda a una preparazione e che gli venga, quindi, servito qualcosa, ma scopo di questa guida è farvi bere quello che prevedevate di bere quando siete entrati nel locale.

Innanzitutto, dimenticate di chiedere un caffè.

Nessuno, a Trieste, lo chiama “caffè”.
“Caffè” è il termine generico che si usa per indicare la materia prima, o nelle insegne che segnalano prezzi contenuti per invogliare gli avventori.

Se chiedete un “caffè”, si capisce subito che venite da fuori; se vi scambiano per furlani, e il barista è particolarmente campanilista, come minimo venite ignorati per po’.
Il triestino è, onor del vero, piuttosto cosmopolito e non vi sputerà nella tazzina se vi scopre forestieri, ma è sempre bello, quando si va in una terra straniera, conoscere e adeguarsi ai costumi locali.

 

Caffè liscio = nero.

Per avere un caffè liscio dovete chiedere un nero.

Badate, non “un caffè nero”: “un nero”, tout-court.

Non è difficile, bisogna solo stare attenti alla pronuncia: la /e/ è apertissima, suona quasi [æ]. 

Chi segue questo blog sa già che i triestini sono famosi per non indovinare neanche per sbaglio l’apertura di /e/ e /o/ nella pronuncia delle parole, per cui le invertono sistematicamente rispetto all’italiano. Fateci caso.
Se non mi credete, fate la faccia del tenente Colombo e domandate al barista se si ricorda il nome di quel dispositivo, simile al montacarichi, atto al trasporto di esseri umani, sul solo asse verticale, all’interno (o, in alcuni casi, all’esterno) degli edifici, e cercate di non ridergli in faccia quando dice [a∫εn’zɜ:re].

Caffè (tanto) macchiato = capo.

Distinguiamo subito: il triestino consuma il caffè macchiato o in tazzina o nel bicchierino di vetro.

Il capo è il caffè macchiato in tazzina.

È sempre macchiato caldo ed è leggermente più macchiato del consueto.
Il termine non ha niente a che vedere con la testa o con chi comanda. È, piuttosto, una conseguenza dell’immotivata mania dei triestini per le abbreviazioni (ricordate i deca?), che trasforma il “cappuccino” in “capo”.

Come mai un popolo così indolente è così incline all’abbreviazione, tipico segno della frenesia? Non lo so, ci vorrebbe un’indagine antropologica, ma occorre qui osservare che quello triestino non è un popolo indolente in senso assoluto: è poco portato per il lavoro, ma non all’attività, infatti, se si tratta di andare in giro, fare gite, viaggi, escursioni, mangiar fuori, vedere un concerto, fare sport, andare in barca, a correre, a teatro, a una grigliata, alla spiaggia e – più in generale – a divertirsi, il triestino è il primo della fila, pronto e sull’attenti.

Occorre qui notare che chi vuol parlar forbito chiede – per esteso – “un cappuccino”, intendendo, e ricevendo, un caffè macchiato.
Tenetelo presente per dopo.

 

Caffè macchiato (tanto, ma tanto) nel bicchierino di vetro = capo in b.

E certo.
Qui l’abbreviazione tocca la sua vetta più alta e ineguagliata: se “caffè macchiato” si dice “capo”, e se basta “b” a indicare il bicchierino, allora il caffè macchiato nel bicchierino non può che chiamarsi “capo in b”. Non fa una piega.

Il capo in b è la preparazione di caffè di gran lunga più popolare a Trieste, non so dirvi se perché molto tipica, e quindi vissuta come una dichiarazione di appartenenza, o se perché molto conveniente, in quanto la capacità del bicchierino è nettamente maggiore di quella della tazzina, per cui, a parità di prezzo, si riceve quasi il doppio di latte e almeno un sorso netto in più.
E poi ne dixian de niatri zeneizi…

 

Cappuccino = càfelàte.

Si pronuncia più o meno come “caffellate”, ma senza le doppie. L’accento secondario è quello sulla seconda /a/. Attenzione, perché la /e/ è atona e molto – molto! – stretta e la /l/ non è sugli alveoli, ma più arretrata, quasi una [λ].

Questa è l’ordinazione più problematica, poiché nel resto d’Italia il caffè e latte – il correttore di bozze che è in me (nel senso che l’ho mangiato) è molto indeciso sulla grafia della locuzione – è una preparazione con preponderanza di  latte, spesso assimilabile al latte macchiato.

In genere, in Italia non si chiede il caffè e latte al bar: al bar si chiede il cappuccino, o il latte macchiato, a seconda di quanto latte si desideri.
Da Monfalcone in poi (lo dico per i triestini), il caffellatte è la brodaglia che si prepara in casa prima che sorga il sole, facendo il caffè nella moca, con ancora gli occhi cisposi e il fiato diserbante, che si consuma nell’ultimo “coccino” del Mulino Bianco, unico superstite di una collezione faticosamente messa insieme a colpi di Tegolini e Soldini (la maggior parte dei cui membri non ha superato Tangentopoli), badando di spanderne una buona dose sul ripiano della cucina.

A Trieste, invece, come abbiamo visto poc’anzi, il cappuccino è il caffè macchiato caldo servito nella tazzina, quindi – con una certa coerenza – per avere una bevanda più abbondante in un recipiente atto a contenere la punta del cornetto senza fare uno tsunami sul bancone, bisogna salire nella scala e chiedere il càfelàtte.

Può capitare di confondersi e chiedere un cappuccino; in questo caso è sufficiente affannarsi a precisare “in tazza grande”. Si capirà che siete foresti, ma sarete ugualmente accontentati.

Il concetto di “cappuccino in tazza grande”, infatti, si sta facendo gradatamente largo in una città da sempre multiculturale, oggi più che mai – grazie al crescente turismo – aperta al cosmopolitismo e alle mode e tendenze del mondo.
Certo, è un concetto innovativo e rivoluzionario, quindi non aspettatevi che funzioni dappertutto.

 

Caffè (poco) macchiato caldo/freddo = gocciato caldo/freddo

Se volete un caffè macchiato freddo come siete soliti consumarlo nel resto d’Italia, dovrete chiedere un gocciato freddo, che, per le suesposte – non indagate – ragioni di brevità, spesso i triestini chiamano soltanto “goccia”.
Potete anche chiedere un gocciato caldo, che altro non è che quello che noi chiamiamo caffè macchiato, poiché c’è meno latte che nel “capo”.

 

Conclusioni e avvertenze

Le altre preparazioni a base di caffè recano, salvo errori della scrivente, le medesime denominazioni che nel resto d’Italia.
Occorre sempre rammentare, però, che non sempre godono della medesima popolarità.
Gli amanti del caffè shakerato, ad esempio, potrebbero involontariamente rendersi protagonisti di un estemporaneo remake dell’unica scena immortale di Radiofreccia.

Come avete visto, il sistema è un po’ farraginoso, ma non inespugnabile.

La cosa importante da rammentare, ancora una volta, è che Trieste non è in Friuli, perciò – come si raccomandava di evidenziare Oridoc –  non dovete pensare che questa nomenclatura funzioni in tutta la regione Friuli Venezia Giulia. A dire il vero, non sono neppure certa che funzioni in tutta la Venezia Giulia, anzi, ho testimoni affidabili che affermano che la sua validità cessi già a Duino.

Fondamentale è che teniate a mente, in caso vi ci trovaste di passaggio in questa o in un’altra occasione, che se entrate in un bar in Carnia o, più in generale, in Friuli e chiedete un nero, non vi danno un caffè, ma si aspettano che lo beviate, indipendentemente da che ore siano.

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9 thoughts on “Come ordinare un caffè a Trieste (niente panico!)

  1. markogts

    Asse maschile quando si parla di traiettoria, asse femminile è il pezzo di legno. Chi di puntalstronzo ferisce, di puntalstronzo perisce :-P

  2. Larry

    Ma certo, l’ho scritto solo per vedere se eravate attenti!

    ***

    C’erano altri tre errori, di cui due da gogna, che credo gli abbonati vedranno, perché penso ricevano la prima versione di ogni post… un motivo in più per abbonarvi!

  3. Nini

    Che post bellissimo (ho amato i disegnini esplicativi).
    Io da friultriestina vivo male la questione caffè a Trieste.
    Prima di tutto quando ordino dico “un caffè nero”, più buongiorni e buonesere del caso. E lo dico con pronuncia dell’entroterra ma sopprimendo l’eventuale cantilena friulana che mi mette a rischio guttalax. Ma proprio non riescomispiacenoncelafaccio a ordinare “un nèro”. Per me il nero resta il taglio di rosso.
    Contemporaneamente la cosa mi crea problemi quando sono dalla parte giusta dell’acqua.
    Di recente a Udine ho pagato un caffè macchiato quanto un capuccino perchè, non essendo una praticante del latte vaccino e quindi non ordinandolo mai per me, ho registrato la consumazione col nome triestino anzichè quello friulano.
    Ho dichiarato, insomma che il succitato macchiato fosse un “Capo”.

    PS secondo me il massimo della (fastidiosissima) tendenza all’abbreviazione triestina è il “capo deca in b” che mi fa sempre rabbrividire un mucchio.
    Capo che, ricordiamolo, può essere sia “ciaro” che “scuro”.
    Ah, a titolo didascalico, ho sentito un barista spiegare ad un non-autoctono (un de fora) che il caffelatte (quello che ovunque è un cappuccino) può rientrare anche nei termini “cappuccione” (comprensibile e vicino per logica al “cappuccino in tazza grande”) o “macchiatone”(che è più italiota e secondo me è per quello che non lo usa nessuno)

  4. Larry

    Nini, come hai ragione!
    Il ‘capo deca in b’ non si può sentire: fossi il barista servirei un’orzata, tanto non è di caffè che l’avventore ha voglia.
    Parole come “cappuccione” e “macchiatone” fanno male al cuore, peggio di esse credo di conoscere solo “morbistenza” e poco altro che, per mia fortuna, al momento, non mi sovviene.

  5. Otti

    Come ho potuto perdermi questo post?…
    Mi consolo pensando che la medesima lezione mi è stata impartita direttamente dall’autrice, vis-à-vis!

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  8. ersy

    beh che dire, un articolo spettacolare
    un applauso a Larry(cette) :D
    i disegnini li ho amati con tutto il cuore!
    UN GRAZIE A NOME DELL’UMANITA’

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