Il marinaio e la balena alla volta del Profeta [6]

Facciamo un breve giro digestivo per il composto centro storico, ma dopo poche vie mi arrendo e imploro di essere portata in albergo dove, indossato l’indumento che mi è più consono, mi infilo sotto le fresche lenzuola e dormo profondamente per due ore, come fosse notte fonda.
Faccio una fatica del demonio a tirarmi su.
Il materasso, bello rigido come quello della mia nonna, che però barava perché ci teneva sotto le tavole di legno, ti trattiene come le sabbie mobili e il pigiama pare una camicia di forza per liberarsi dalla quale, più che la volontà, ci vuole la magia.

Piena di determinazione, mi lascio trascinare fuori, perché a vedere la città tengo molto e mi pentirei moltissimo di essere rimasta a dormire. Terminato il piacevole giro turistico e constatato che all’appuntamento con Ciambe e la Mary mancano quasi due ore, sono ancora più pentita di non aver dormito un altro po’. Ad ogni modo ho la testa come una mongolfiera e ammetto che dormire non mi avrebbe giovato.

L’appuntamento è in un bar dall’altra parte del fiume, ma non distante dal teatro, che si chiama Dulcamara.

I pochi tavolini fuori sono pieni e i piatti degli stuzzichini di accompagnamento all’aperitivo hanno un’aria promettente. Dentro, invece, ci sono molti tavoli, e noi sediamo al Sei. I numeri che contrassegnano i tavoli sono fatti di sagomine di legno doppie, fissate con una vite con angolazione di novanta gradi, in modo che l’immagine speculare del numero che sta in piedi sul tavolo ne costituisca la base. Spiegato da me pare complicato, in realtà è un’idea semplice e carinissima. Talmente carina che per un po’ accarezzo l’idea di lasciare una mancia generosa e infilarmene un paio in borsa, sostenendo che – sono mortificata – ma li ho rotti e quindi ora pago e i cocci sono miei.

È così che mio padre si faceva regalare i piattini personalizzati con cui, al ristorante, ci portavano la ricevuta: “Scusi, abbia pazienza, ho rotto il piattino, quanto le devo?” – “Ma niente, s’immagini” – “Ma no, mi dispiace, glielo pago, mi dica quanto” – “Ma non ci pensi neanche” – “Davvero?” – “Ma certo” – “Allora me lo posso portare via anche se è intero?”. Sgomento del proprietario. Faccia da bambino speranzoso di mio padre. Grassa risata del proprietario e offerta di ulteriori piattini con decorazioni diverse, se disponibili. Amichevoli strette di mano e promesse di tornare. Io estasiata dal mio papà che “ci sa fare”. Mia madre che fa finta di non conoscerci e cerca di mimetizzarsi contro il muro, riuscendoci peraltro molto bene essendo una sfinge e in quanto tale, fatta di sabbia e pietra. Non faccio in tempo a esprimere il mio proposito di comprare al gestore i suoi segnatavoli convincendolo con una gag alla Clouseau, che vedo negli occhi di Zzi balenare il medesimo lampo di disapprovazione e rassegnazione che aveva mia madre, il primo per la mai compresa necessità di portarsi via il piattino del ristorante (e per il modo fondamentalmente ingannevole con cui si ottiene dal proprietario il permesso di farlo), la seconda per la prospettiva di portare a casa un altro ravatto, un ammennicolo inutile che sarebbe andato ad unirsi agli altri numerosissimi ammennicoli inutili che mio padre non smetteva di raccattare in giro. Rinuncio, ma resto del parere che i numeri dei tavoli del Dulcamara di Parma sarebbero stati benissimo in casa nostra.

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