Il Pedocin aka Bagno Lanterna, Trieste

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Oggi non vi parlo di un locale dove mangiare, di una ricetta o della mia ultima disfatta sportiva.
Oggi vi racconto un’esperienza umana, che – come immaginerete – mi ha profondamente segnata.

Giovedì scorso sono andata con CP al Pedocìn.

 

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Il Pedocìn, questo sconosciuto

“E che cazzo è il Pedocìn?”, diranno subito i miei Piccoli Lettori che non sono di Trieste, mentre quelli di qui si porteranno le mani al volto facendo la faccia dell’Urlo di Munch.

Il Pedocìn – letteralmente “piccolo mitile” – è uno stabilimento balneare comunale sito in molo Fratelli Bandiera, a Trieste. Chi non è pratico della città, sappia che è praticamente in centro.

Esso ha il vantaggio di essere facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, se non addirittura a piedi.
È molto economico: il biglietto di ingresso, del tutto simile a quello del bus, tant’è che va addirittura obliterato nell’apposita macchina, costa un euro.

È famoso per una particolarità che lo rende unico e molto popolare fra gli uomini.
“È pieno di figa!” – diranno subito i miei Piccoli Lettori.
Meglio, molto meglio: la spiaggia è attraversata da un muro che divide il settore degli uomini da quello di donne e bambini.

 

Come cazzo mi è venuto in mente di andare al Pedocìn

Molti di voi lo sanno già: io òdio andare alla spiaggia.
Perché, dunque, mi sia venuta la strabiliante idea di trascorrere la pausa pranzo al mare è uno dei tanti misteri di una psiche incoerente, che dobbiamo rassegnarci a non svelare. A un certo punto della mia vita, mi sono convinta del fatto che sarebbe stato bellissimo rinfrescarsi con una nuotata e riempirsi gli occhi di luce e panorama mozzafiato, tra una rottura di coglioni e l’altra in edicola.

È vero, del resto, che tanto è difficile portarmi al mare, perché sono reticente a fare lo zaino, fare la strada, fare le file, fare fatica a sopportare caldo e gente, tanto è difficile tirarmi fuori dall’acqua una volta che ci sono entrata.
Io sono quella che risponde “ancora cinque minuti” anche alle mamme degli altri, come vi ho già raccontato, perciò l’idea di “fare un toč” (triestino per “rapida immersione in acqua”, quasi un “intingersi”, che il genovese esprime con “pucciarsi”) fuori programma ha esercitato su di me un’attrattiva tale da farmi perdere la ragione.

Inoltre, sono in piena fase “rientro alla grande“, quella in cui, ogni anno, fantastico (nel senso che siamo lungi dal “pianificare”) di fare tutte quelle cose belle e giuste che faranno di me un individuo migliore, come “dimagrire” (e non “stare a dieta”, ma solo “dimagrire”, così, per magia o per effetto di un intenso desiderarlo), “imparare lo sloveno” (anche qua: non “studiare”, bensì “imparare”, forse semplicemente andando a cena con l’insegnante), “migliorare il tedesco” (idem), “fare moto”.
Solitamente sono piena di entusiasmo e ansiosa di fare tutte queste cose belle, salvo poi desistere alla prima ipotesi di difficoltà.
Quest’anno, invece, non ho manco l’entusiasmo.
“Sento” che è arrivato il periodo dei buoni propositi, ma non ho cazzi di formularne neanche uno, tanto sono sempre quelli.
Dilaniata dal senso di colpa per questo atteggiamento lassista e sinceramente preoccupata per la china che la mia vita rischia di prendere, ho pensato di fare uno sforzo e concentrarmi, almeno, sul moto.

Con una finissima intuizione da provetta psicologa, ho capito che sarebbe stato tutto più facile se mi fossi fregata, cioè se mi fossi portata a fare un’attività fisica divertente, costringendomi a muovermi con la scusa della piacevolezza dell’attività; senza dirmelo, ovviamente.
Ci sono cascata alla grande e mi sono convinta che una nuotata in pausa pranzo era quello che ci voleva: divertente, dinamico quanto basta, economico anche dal punto di vista del tempo, poiché si fa senz’altro prima ad andare a nuotare in mare in estate, che in inverno in piscina, con tutta la rottura di cazzo di borsa, cambio, cuffia, ciabatte, doccia, funghi, cistite, fon, ritorno a casa a tron di Dio con la cena da fare.

Per colmo di sventura, CP – il solo che più di me detesta andare al mare e fare moto – è colto da una provvisoria incapacità di intendere e volere, e approva ed aderisce con entusiasmo al progetto “puccia in pausa”.
Glielo espongo tre o quattro volte per essere sicura che abbia capito, ma tutte le volte acconsente.

 

Larry e CP al Pedocìn

Per arrivare allo stabilimento e tornare in edicola in tempo, essendo anche riusciti a inumidirci le piante dei piedi nel frattempo, è necessario coprire la distanza tra spiaggia e posto di lavoro più rapidamente che a piedi, ma, per fortuna, abbiamo lo strumento che fa al caso nostro: la bici!

Ho verso la bicicletta un profondo amore non corrisposto, ma sono un’inguaribile ottimista e sono sicura che dipenda dal fatto che ancora non ci conosciamo abbastanza, e che un giorno la conquisterò.
In futuro vi racconterò più nel dettaglio le origini e i particolari del mio rapporto con il mitologico veicolo, per ora vi basti sapere che ci siamo accordati per andare a lavorare su due ruote, e così abbiamo fatto.

Ad essere precisi, CP è venuto in bici; io ho preso il Falcon.
Il Falcon è il Millennium Falcon, l’ammasso di ferraglia più veloce della galassia, o quasi, come ho già avuto modo di raccontarvi.

Giunta nel rocambolesco modo che saprete davanti all’edicola, trovo CP che smonta agile dal suo mezzo, con l’aria disinvolta e sicura del ciclista vero, bello che pare uscito da una biglia, con una bici da corsa con il manubrio fasciato di garza e le ruote sottili sottili, originale degli anni sessanta.

Mi convince a portare su anche la mia.
“CP, cazzo, guardala: chi me la ruba?” – “Non mi interessa sapere chi, mi interessa che non la rubino”.
Davanti a questa logica ferrea cedo e porto il Falcon in edicola… cioè: acconsento che CP si camalli il Falcon in edicola mentre io gli reggo almeno lo zaino.

Il Falcon, infatti, ha il telaio in piombo e i raggi in ghisa, è la bici più pesante del mondo, senza ruote sarebbe impossibile da rubare perché ci penserebbe la forza di gravità a saldarla al suolo.
Per fortuna, l’edicola è al primo piano e il mio adorabile collega sopravvive.

Dopo quattro ore, siamo finalmente pronti per andare al mare.
Scaravento il Falcon giù dalle scale e dopo cinque minuti siamo in strada.
Io propongo di portare la bici a mano fino alla ciclabile dall’altra parte delle Rive, poi mi lascio convincere a fare in sella il tratto pedonale di via Diaz fino a piazza Venezia.
CP fa la faccia di quello che si aspettava maggiore padronanza del mezzo.
Al semaforo mi chiede se voglio stare davanti, ma io dico di no, perché non so bene come prendere la curva per restare sulla corsia più a destra, quindi voglio vedere quello che fa lui e cercare di stare in scia.
Non ho capito come, lui sale subito sulla ciclabile; a me il gradino sembra troppo alto [NB: quella con la mountain bike sarei io] e ho paura di impuntarmi e cadere – mi è già capitato -, di conseguenza devo aspettare di arrivare al semaforo pedonale, per usufruire della rampetta.
Finalmente sul marciapiedi, posso andare a tutta velocità: dodici/quindici chilometri all’ora, di più no, perché altrimenti poi non freno.
Alle 13.15 giungiamo davanti allo stabilimento, c’è un gran via vai di persone e il chiosco all’esterno, che ha fama di preparare polpette deliziose, è preso d’assalto.
Ancoriamo le biciclette a un paletto ed entriamo.

 

Dentro lo stabilimento Lanterna

L’ingresso, come detto, costa solo un euro.
In cambio della mia monetina, mi viene dato un biglietto simile a quello dell’autobus, ma più spesso e tutto bianco, da timbrare nell’obliteratrice alle mie spalle. Dal corridoio si vedono entrambi i settori: quello maschile è modestamente popolato, quello femminile è una bolgia infernale in cui i bambini che cercano di stordirsi a vicenda con urla belluine sono l’elemento meno rumoroso.

Ci diamo appuntamento in acqua, ma io temo che sia l’ultima volta che lo vedo.
Sono molto fortunata: dev’essere appena andato via qualcuno e c’è un rettangolo di spiaggia, grande giusto come un asciugamano, dove posso sistemarmi. Tutto il resto è occupato.

I triestini sono un popolo profondamente amante della tintarella, perciò orientano l’asciugamano – o la sdraio – sempre in faccia al sole, in modo da arrostirsi uniformemente.
Quando il forestiero ingenuo si accomoda vista mare e fa notare che ci si abbronza lo stesso, perché ci pensa il moto apparente del sole ad abbronzare su tutti i lati, il triestino scrolla la testa pensando “povero mona” e con pazienza spiega che non si sta al sole dall’alba al tramonto, perciò l’esposizione non è uniforme, e che l’intensità dei raggi è diversa a seconda dell’ora del giorno, pertanto si rischierebbe di tornare a casa più cotti da un lato che dall’altro. A quel punto, il forestiero capisce di avere di fronte a sé un malato di mente e gli dà ragione per assecondarlo.
Sia perché non c’è spazio sufficiente di disporre l’asciugamano nell’altro verso, sia per evitare di farmi riconoscere come forestiera ed essere impalata con la doccia, metto il mio asciugamano faccia al sole e mi preparo per fare il bagno cercando di dare il meno possibile nell’occhio.

Tipicamente, quando vado al mare, do un casino nell’occhio.
Dall’alto verso il basso, come minimo indosso:

occhialini da piscina superfighi, ultrafascianti, con bordo in silicone a ventosa così aderente che sturerebbe anche un cesso, per non far passare neanche una goccia d’acqua, non quelli scrausi con le lenti contornate di gomma dura, che fanno un male boia e dopo due volte che li porti al mare, per effetto del calore, la gomma diventa gesso e tra il viso e l’occhiale si formano delle fessure che ci passa un tonno.
Nonostante io sia stata portata al mare fin da piccola, infatti, non ho mai superato il fastidio dell’acqua negli occhi, né ho mai imparato a nuotare con la testa fuori dall’acqua, perciò, se non voglio nuotare alla cieca e col torcicollo, gli occhialini sono indispensabili.

lenti a contatto; è inutile avere gli occhialini e poter tenere gli occhi aperti, se non vedo un palmo oltre il mio naso; oltretutto, so bene che il mare è popolato di mostri come e più del bosco, quindi devo essere in grado di accorgermi immediatamente degli attacchi che sto per subire (tipo: vongole-kamikaze, bouse assassine… cose così).

costume sgargiante; non so perché. Tanto buon gusto ho nei vestiti (salvo qualche eccentrico vezzo), tanto il costume da bagno mi conquista solo se è vistoso. L’ultimo acquisto è a righe orizzontali bianche e blu, ha una piratessa sulla tetta destra e un teschio sulla patata. Quando l’ho visto, non ho potuto rinunciare. Nel mio cassetto si trovano anche un insospettabile due pezzi nero con profilo bianco, che si risolleva con elefante e ippopotamo in tutù, danzanti, sulla tetta sinistra, e un bikini con acquario psichedelico, sfondo blu elettrico, pesciolini argentati e laccetti giallo fluo, che però, col passare degli anni, sono diventati bianco pidocchio.
Non posso portare dignitosi costumi interi perché tra tette e culo ho uno scarto di tre taglie, quindi se lo prendo della misura giusta di sotto, poi di sopra mi casca da tutte le parti e ho sempre le tette di fuori, mentre se lo prendo giusto di sopra, di sotto mi sega l’inguine e appena respiro mi si infila fra le chiappe, incendiandomele.

scarpette da scogli; non sono esteticissime, me ne rendo conto, ma l’unico posto in cui entro in acqua scalza è la piscina, e solo per rispetto al divieto di entrarci con le scarpe. Come immaginerete conoscendomi, non è il timore della puntura di un riccio a farmi indossare le scarpette – giacché è dall’85 che non vedo un riccio di mare dal vivo, anche se ricordo distintamente di quando uno mi punse l’alluce sinistro nonostante i sandaletti di gomma -, bensì un generico “schifo” del fondale marino, e il fatto che non so camminare sui sassi: mi fanno un male cane, non sono in grado di completare il percorso-benessere sui ciottoli alle terme se non tenendomi saldamente alla ringhiera e praticamente sollevandomi su di essa come un ginnasta alle parallele, sento male alle piante dei piedi già con le scarpe da corsa sui sentieri, figuriamoci scalza sulle pietre calde.
Tanto per darvi un’idea di come non stia né in cielo né in terra che entri in mare scalza, ieri – domenica 8 settembre – sono andata al mare con Zzi, ho dimenticato a casa le scarpette (nonostante la loro importanza, lo faccio comunque, in media, una volta all’anno) e sono entrata in acqua con le scarpe.

Per non traumatizzare troppo CP e in considerazione dell’esiguo lasso di tempo che avremmo trascorso al mare, avevo deciso di rinunciare agli occhialini e di sostituire le scarpette con delle più innocue infradito di gomma.
Innocue un cazzo.
Io detesto le infradito, ho comprato solo quel paio, nove anni fa, perché andavo ospite da amici e volevo darmi un tono trendy, ma non le sopporto, le trovo brutte e, soprattutto, sono scomode. Il perno fa un male boia in mezzo alle dita e il piede non è tenuto fermo da alcun che, così la ciabatta scappa da tutte le parti, con conseguente massacro di dita, pianta e dorso del piede.
Fortunatamente, la spiaggia del Pedocìn è minuscola, e dal mio asciugamano all’acqua saranno sì e no otto passi – tutti malfermi. In otto passi, casco due volte dalla ciabatta destra e perdo una volta la sinistra.
In acqua è anche peggio. Le infradito diventano scivolosissime, sembrano insaponate, sono molto più numerose le volte che metto il piede sui sassi lepegosi (bleah) che sulla suola delle mie infradito.

Nel frattempo, anche CP è in acqua. È diversi passi più al largo di me, ma l’acqua non arriva a lambirgli i boxer. Il mio amico è molto alto, non perdo la speranza. Quando lo raggiungo, il mare mi ha bagnato metà femori, una ventina di passi ancora e il bacino per la balneazione è finito.
Ci inginocchiamo e finalmente l’acqua ci arriva alle spalle.
È torbida che sembra il Colorado, ma non intendo mettermi a sottilizzare, con tutta la fatica che ho fatto per venire qui.

Mi accorgo solo ora che mi sono dimenticata di togliermi la fede.
Per fare il bagno la tolgo sempre, perché ho paura di perderla. Tra me e il mio zaino, però, ci sono chilometri e chilometri di pietre sconnesse da percorrere in infradito. Chiudo il pugno e inauguro lo stile di nuoto comunista.
Rinfrancati, torniamo a riva, lui scalzo, disinvolto e tranquillo nel suo angolino di deserto, io con due tavolette di sapone di Marsiglia ai piedi, verso il girone di coloro che hanno la colpa di avere un utero che le fa sragionare.

Mentre aspetto di essere un po’ meno fradicia per rivestirmi, noto che, pur essendo il settore, femminile, non è “pieno di figa”, tutt’altro.
Qui, al riparo da sguardi maschili, le donne si lasciano andare alla loro condizione più primordiale e vagano tra la doccia e l’asciugamano coperte del solo slip, che non nasconde completamente la peluria.
Nessun pudore cela le mammelle, vittime di una gravità impietosa. I capezzoli sembrano occhi inorriditi spalancati sul baratro che li attende. Con la scusa di strizzare le coppe del costume, controllo che i miei guardino ancora di fronte a loro. Dopo la biondina dell’est sotto i venticinque anni, che ha due tette da manuale – piene, vicine, alte e sode, prova dell’esistenza di Dio, perché nessun chirurgo, ma solo la mano divina, può farle così – sono quella messa meglio. Forse era in corso il tentativo di entrare nel Guinness dei primati per la più intensa precipitazione di tette, e io e la biondina abbiamo rovinato la media. Ad ogni modo, per me che, anziché quella del pene, ho sempre avuto l’invidia del petto, è stata un’esperienza molto istruttiva e formativa, e il mio ego ne esce galvanizzato, giacché è la prima volta che mi trovo in un insieme di persone, stilando una classifica delle quali, arrivo sul podio delle “chiavabili”.

Più della confusione e del chiasso, mi ha traumatizzato l’abbandono della dignità.
C’è chi ha i bigodini in testa, chi somministra ai pargoli pietanze da Telefono Azzurro che io mi vergognerei a far sapere in giro che ho cucinato, chi cerca di strapparsi i peli dagli stinchi con le unghie ricostruite. Non vedo nessuna che si fa la ceretta, ma forse sono semplicemente arrivata tardi.
Mentre rifletto sul fatto che però, in effetti, pure io avrei bisogno di una ripassatina – eppure, porco Giuda, ho fatto la ceretta due settimane fa, non è possibile che mi siano di nuovo cresciuti gli scaldamuscoli, che bulbi piliferi ho?, perché il mio corpo non produce muscolo come produce peli?, sì, ok, è il motivo per cui ho questi bei capelli, ma belin, che prezzo!, forse dovrei stare più attenta alle fasi lunari e al ciclo mestruale, a proposito, quando mi vengono?, sabato?, domenica?, ah, ecco perché sono così incazzosa e prendo male qualsiasi cosa la gente mi dica, boh, comunque quell’altro quell’uscita se la poteva pure risparmiare, non sono io che sono isterica, è lui che è cafone e ho fatto bene a rispondergli per le rime, e se non ci parliamo più tanto meglio, magari tra una settimana lo chiamo e vedo se gli è passata, anzi  gli mando un messaggio, ecco, dopo, quando torno in edicola, gli scrivo, poi, già che ho il telefono in mano, potrei prenotare l’estetista per una delle prossime pause pranzo, ma no, mi s-ceretto da sola e risparmio trenta euro, anche se poi dietro viene male, perché non posso far fare anche questo a Zzi, magari vado dall’estetista solo questa volta, e poi faccio da sola, tanto dalla prossima volta in poi avrò già le calze… – mentre ero assorta in importanti riflessioni sul destino del mondo – dicevo – mi sovviene che è tempo di andare, mi rivesto in fretta e furia e raggiungo CP, che è già pronto per montare in sella al suo bolide.

Sono estenuata, non so bene se dall’esperienza Pedocìn – troppo hard per una non-triestina come me – o dalla bicicletta o l’insieme delle due cose.
Va beh, ho avuto un’idea del cazzo, capita, non è morto nessuno; ho provato e ho visto che è uno sbattone che non vale la pena, almeno adesso lo so e la pianto di fantasticare sulla cosa. Meno male che, in tante estati di pausa pranzo in edicola, non mi era mai venuto in mente prima.

“Hai avuto proprio una bella idea” – fa CP – “mi sento incredibilmente rigenerato. Dovremmo farlo più spesso!”


 

Grazie al cielo, a Trieste non c’è da vedere solo una spiaggia striminzita con il muro del pianto nel mezzo.

Mete più interessanti e consigli su dove mangiare sono raccolti nella mia guida

È 2(0.000) passi a Trieste ed è disponibile qui

3 thoughts on “Il Pedocin aka Bagno Lanterna, Trieste

  1. Giulio GMDB

    In quante cose mi sono rivisto: dalle cose buone e giuste da fare all’orientamento dell’asciugamano (in questo mia moglie è la vera triestina ed io sono il forestiero) all’odio per le infradito, ecc… :-D
    Bellissimo post!

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