La gaja cena [1] ✄

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Io ero molto titubante sulla partecipazione alla cena della nostra giovane, ma rispettabile società sportiva di orienteering, poiché avevo paura che ci nascondessero le pietanze in giardino e ci dessero una cartina per trovarle. Il che avrebbe comportato che il secondo classificato nazionale nella categoria M18, vanto della nostra società, il Previdente Presidente e la sua Fascinosa Figlia si sarebbero ingozzati come tacchini, gli altri si sarebbero nutriti adeguatamente e io sarei morta di stenti in una landa desolata e gelida, completamente fuori carta.

Rassicurata sulle modalità tradizionali del convivio, attivo subito l’interrutore del panico all’interrogativo “e noi cosa portiamo?”.
Voi Piccoli Lettori ci starete ridendo su, ma la situazione è al limite dell’emergenza: ci sono poche istruzioni e quelle poche sono discordanti. Porta il dolce. Porta il primo. Porta il salame di cioccolato, ma senza cioccolato. Porta il primo, m che non vada in forno perché non c’è il forno [scatta l’esaurimento nervoso]. Porta quel cazzo che ti pare, basta che la pianti di domandare.
Ho provato a informarmi sul numero dei partecipanti; ho accettato che la stima più precisa fosse da 10 a 20 [come a dire da epsilon a più infinito] e ho deciso di far tutto.

Incautamente ho manifestato questo proposito a Zzi, che ha chiuso la cucina col lucchetto tutta la settimana e mi ha nascosto il portafogli per impedirmi di fare la spesa.
Ho provato ad andare a cucinare dalla Giraffa, ma era stata allertata e si è finta assente.
Il pomeriggio del giorno stesso della cena mi accingo a inandiare cannelloni, salame e torta, ovvero un primo, un dolce, un dolce [apparentemente] senza cioccolato.

La preparazione procede senza grossi intoppi, a parte i cannelloni che si rivelano essere pochissimi e alle quattro e mezza mi tocca ricominciare a fare l’impasto. Ma tanto io sono cintura nera di crepes e non mi scompongo.
Quando Zzi arriva a casa e trova la cucina ridotta come il Meazza dopo un concerto di Vasco, invece, si scompone eccome e reagisce violentemente: alza entrambe le sopracciaglia e va a levarsi il cappotto.

Il ritrovo è alle 19,00 al quattrocinquesei di uno di quei paesotti del carso triestino che io non sarei in grado di distinguere l’uno dall’altro neanche se ci fossi nata, figuriamoci individuarne la posizione geografica rispetto alla città. Il che significa che, per quanto ne so io, il luogo potrebbe trovarsi a cinque minuti di macchina come a un’ora [okay, no,  impossibile: la provincia sarebbe finita…diciamo 40 minuti].
Assumo che sia uno dei posti vicini e finisco di incartare i cannelloni alle 18,50. È un miracolo che la carta non abbia preso fuoco a contatto con la teglia incandescente.
Tanto alle impronte digitali non ci tenevo mica.
La serata è piacevolmente invernale, i cannelloni sono diventati gelidi prima di arrivare in macchina e giunti sul posto il termometro dà meno cinque, ma voglio pensare che sia un mitomane.


[Continua con: La gaja cena 2]

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