NOTHING IS IMPOSSIBLE [A Speaker’s guestpost]

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Mi sono accorta che in questo post mancava un link al blog dello Speaker.

Non che ce ne fosse bisogno, dato che lo trovate alla voce C-orientisti e Trailoisti nella colonna a destra, e  – soprattutto – dato che tutti conoscete meglio lui di me, ma mi pare educato segnalarvelo ugualmente.

http://stegal67.blogspot.it/

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Quando penso alle pubblicità a tema sportivo, mi sovviene alla mente uno degli slogan più belli che forse sono mai stati utilizzati. Lo spot è quello dell’Adidas “Nothing is impossible”. La mia mente corre subito alla versione rugbistica, realizzata in occasione del tour dei British Lions in Nuova Zelanda; per chi crede ancora alle parole dello speaker e non se lo vuole perdere, ecco il link: (http://www.youtube.com/watch?v=csmzwPTBrkA ) guardatelo e godetevelo. Non vi svelo il finale!

La mente corre… ed a me viene da sorridere. Il motivo? Semplice: ho scritto che quello slogan “Nothing is impossible” è stato “utilizzato” da Adidas, non “inventato” da Adidas. Credo sia difficile dire chi può essere stato il padrone, o l’inventore, o il coniatore di una frase così semplice composta di sole tre parole (ma Salvatore Quasimodo è passato alla storia senza averne usate molte di più…).

Magari, potendo possedere la macchina del tempo ed un buon motore di “ricerca di tutto quanto è stato detto e scritto nella storia”, scopriremmo che il primo ad unire in una unica frase quelle tre parole è stato un brufoloso contadinotto medioevale del Devonshire alle prese con il dubbio se mettere mano oppure no al battente posto sulla porta della casetta dove abita la contadinella del campo accanto…

Bene! Io non so CHI ha detto quella frase per la prima volta. Io però so QUANDO l’ho sentita per la prima volta. Il bello è che non l’ho nemmeno sentita in inglese, ma in francese. “Rien n’est impossible”. È il 1985.

Lione. Coppa Europa di pallacanestro giovanile. Sedici squadre. Qualcuna raccogliticcia, dalle nazioni meno quotate; altre sono autentiche corazzate. Torneo ad eliminazione diretta: se incontri gli jugoslavi al primo turno, sei f0ttut0 (e di squadre jugoslave ce ne sono due…).

È un’accozzaglia di ragazzi milanesi senza arte né parte quella che sbarca nella città francese. La stampa dedica quotidianamente un paio di pagine alla sfida per il titolo: sarà una delle squadre jugoslave contro una di quelle francesi; per i milanesi c’è una (UNA) riga.

Alla cerimonia inaugurale scopriamo che ogni squadra è accompagnata, durante la sfilata (roba da alzabandiera e inni nazionali) e alle partite da un campione o una campionessa locale; tra gli altri, mi pare di riconoscere Guy Drut (http://it.wikipedia.org/wiki/Guy_Drut ).

Quella che si affianca a noi durante la sfilata è la signora Colette, una signora dolce. Ha gli occhi profondi, il volto gentile. Sulla quarantina. La maggior parte dei miei compagni di squadra parla solo inglese; io ed un altro invece parliamo francese e possiamo scambiare qualche parola. La sua voce è tenue, calma, un sussurro. Non c’è un filo di impazienza in ogni suo movimento. Ci accompagna durante la sfilata, ci segue al banchetto per gli ospiti (un salone nel quale avevano rinchiuso in uno spazio angusto 160 ragazzoni – più gli ospiti – con un’altezza media superiore ai 190 cm!). La signora Colette parlava. Ci chiedeva dei nostri sogni, delle nostre speranze (poche), delle nostre ambizioni (ancora meno!). E poi, alla fine della serata, al momento di congedarsi, una frase.

“Rien n’est impossible”.

Primo turno. Oppure ottavi di finale, che fa un po’ più figo. Palazzetto di Lione. Una roba stile “Baldekin” di Sebenico. Noi contro i belgi… contro i belghi? Belgi o belghi? (copyright by Cochi e Renato). Diciamo: noi contro i campioni del Belgio. Il Belgio? Giocano a basket in Belgio? Io non posso parlare per tutti i dieci ragazzi che avevamo di fronte. Ma per uno si! Uno sapeva giocare! E come sapeva giocare! E sapeva tirare… ogni volta che alzava la mano, e spesso lo faceva da oltre la linea dei tre punti, era un morto. Ogni tiro un centro. Inarrestabile.

La signora Colette guardava quello scempio dalla tribuna. Imperturbabile. BUM! Un tiro un centro. Perdiamo palla in attacco? BUM! Un altro tiro un altro centro. La signora Colette sempre imperturbabile. Ad un certo punto pensai (e glielo dissi pure) che, se fossimo usciti al primo turno, avrebbe potuto tornare subito a casa sua… BUM! Tiro… Centro… BUM! BUM!

“Rien n’est impossible”.

Quel ragazzo belga sbagliò un solo tiro in tutta la partita. Nell’ultima azione. All’ultimo secondo. Non saprei nemmeno dire come, all’ultimo minuto eravamo passati in testa. Ma c’era sempre il ragazzo belga con il pallone. L’ho visto smarcarsi, prendersi il tiro da tre punti. È dentro. È dentro. È sempre stato dentro, oggi. Abbiamo perso, abbiamo perso, siamo fuori dal torneo. È… fuori! È fuori! Ha sbagliato! Ha sbagliato l’unico tiro che doveva segnare. Il più incredulo sembra lui, il protagonista di quella partita. Mentre corriamo in campo, colgo con la coda dell’occhio la signora Colette. Imperturbabile. Quali erano state le sue parole, durante il commiato della sera precedente? Non le ricordo nemmeno.

Ci penserà lei a rammentarle, con calma, durante la cena del dopo partita. “Rien n’est impossible”.

Secondo turno. O quarti di finale, che fa più figo. Il tabellone ci mette contro i vice campioni di Francia del Villeurbanne. Chi vince va in semifinale ad affrontare i favoriti del Limoges (un tabellone-capolavoro: le due jugoslave da una parte, le due francesi dall’altra!). È la prima volta che affronto una squadra in cui militano giocatori di origine africana. Già a guardarli in riscaldamento c’è da aver paura (paura sportiva, intendo!); un paio di loro sono già nel giro della nazionale… Perdiamo? Perdiamo. Cosa altro si può fare? Non mettiamo la testa fuori nemmeno per un solo minuto della partita. In tribuna c’è ancora la signora Colette. Mi chiedo se, in fondo, non stia facendo il tifo per i suoi connazionali. La signora Colette è lì, impenetrabile. Noi perdiamo. Non possiamo fare altro.

Ce lo diciamo fin al 39esimo minuto di gioco quando, senza nemmeno sapere come, ci troviamo davanti di un punto. L’ultima azione della partita è un dramma. Villeurbanne sbaglia l’ultimo tiro, i nostri avversari vanno al tap-in una volta, due volte, schiaffeggiano la palla per la terza volta verso il canestro. Ma quella non vuole entrare. Sirena finale: Milano vince, Villeurbanne perde. Sugli spalti si disperano. La signora Colette? Non fa un plissé. Dopo la partita, mentre rientriamo nei nostri alloggi, quasi ce lo attendiamo: “Rien n’est impossibile”.

Terzo turno. O semifinali, che fa MOLTO più figo. Il dramma della sera precedente lo capiamo al momento di scendere in campo contro il Limoges; è prevista la diretta televisiva su Antenne 2 per quello che doveva essere l’incontro tra le due francesi. Arbitra Maininì, quello di “Maininì-Kotleba” per i più esperti. Nel Limoges giocano due nazionali; non della selezione giovanile. Due nazionali assoluti. I milanesi quasi si fermano a guardare lo spettacolo messo insieme in riscaldamento… oggi parlerei di All Star Game delle schiacciate. Cosa possiamo fare? Perdiamo! Ovvio, no? C’è la televisione, arbitra Maininì. Ci sono Hugues Occansey e il secondo degli Ostrowski dall’altra parte! E poi tutti vogliono vedere il Limoges in finale, contro la vincente della semifinale tra Partizan e Bosna (e quello si che sarà un dramma… non ho mai visto, ripeto MAI prima o dopo, giocare nessuno con la stessa tenacia e determinazione dei ragazzi di Sarajevo).

Quindi? Perdiamo.
Ma c’è la signora Colette in tribuna d’onore.

Per tutta la partita Occansey si accanisce come uno tsunami contro di noi. Ma in qualche modo restiamo sempre attaccati alle chiappe dei francesi. Il destino gioca strani scherzi… Ultima azione. 62 pari. Noi in attacco. 20 secondi. 10 secondi. 5 secondi. Il nostro play si butta in mezzo all’area e cerca un tiro assurdo. Fischio dell’arbitro. Fallo! Chi ha fischiato? Meininì… Meininì ha fischiato contro il Limoges? Un fallo dubbio? Come è possibile? A tre secondi dalla fine?

Time-out. Non so dove sia la signora Colette e del resto non capisco più nulla. Sarà ancora in tribuna, forse un po’ meno imperturbabile. Noi facciamo fatica a sentire le urla del coach mentre la telecamera di Antenne 2 si infila nel nostro cerchio. Ricordo solo una cosa urlata al nostro play “… prendi la mira sul primo e segna il secondo…”. Primo tiro libero: stunk! stunk! Fuori. Un silenzio irreale. Secondo tiro libero: zip! Centro secco.

Corro in difesa a coprire, mentre passo la linea di metà campo sento solo lo strillo del mio coach. Mi volto e, alto sopra di me, vedo un puntino che diventa un dischetto, che diventa più grande, che diventa un pallone arancione. E sta venendo dritto verso di me! Afferro la palla come un wide receiver e mi ci butto sopra. Credo di aver preso più botte in quei tre secondi che in tutta la mia carriera! Tre… due… uno… SIIIIIREEEEENAAAAA!!!

Come diceva la signora Colette? “Rien n’est impossibile!”. Un mio compagno di squadra sviene, qualcuno piange. La signora Colette attraversa il campo sorridendo per venire verso la nostra panchina.

La mia storia finisce qui.

La finale avrà un esito ben diverso, anche se tra i miei pochi ricordi divertenti di quegli anni c’è quello di un ragazzone che mi insegue urlando dopo che gli avevo appena soffiato il pallone in mano modo per andare in contropiede. Credo che abbia fatto una discreta carriera, dopo il 1985: a Sacramento e a Los Angeles qualcuno lo ricorderà senz’altro!

E poi io ricordo la signora Colette. Ed il suo “Rien n’est impossibile!”.

È frase che nello sport, inteso come metafora della vita, e nella vita intesa come metafora dello sport, non sempre può essere vera fino in fondo. Ma sta lì ad indicare la strada: chiunque, ed in qualunque situazione, ha il diritto di provarci e di crederci. Talvolta il solo fatto di essere alla partenza di una gara, o di varcare la soglia di una aula di esami o… o immaginate voi la situazione… rappresenta l’affermazione più serena e convinta che “Rien n’est impossibile”. Me lo sono ripetuto spesso in questi anni e, anche se non sono stato spesso un buon discepolo della signora Colette. Talvolta, ancora oggi, penso all’insegnamento della signora Colette.

Ho letto su un giornale la notizia della sua morte mentre stavo rientrando dalla “Six days of Scottish orienteering”, alcuni anni fa, e mi è venuto un groppo alla gola. La stessa cosa mi succede ancora oggi, sento lo stesso nodo alla gola e le lacrime che montano agli occhi.

Poi, qualche anno fa, ho trovato su youtube un video della Signora Colette, in bianco e nero. È questo.http://www.youtube.com/watch?v=9A3ryJX4aFc

La Signora Colette è in quinta corsia. La riconoscete subito: è l’unica che indossa una maglietta blu e, nei primi fotogrammi del video (che dura 90 secondi) è indietro rispetto alle altre ragazze; ci rimarrà per quasi tutta la durata del filmato. Mi chiedo se, in quegli istanti e fino alla fine della sua corsa, anche la signora Colette non abbia pensato che, in fondo…

NULLA

È

IMPOSSIBILE

(in memoria di Colette Besson – 1946-2005)

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