L’unica volta che vidi Parigi (5)

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Parigi!
Ah, Parigi!

Io, finora, Parigi l’ho vista solo dall’America: Sabrina, Gli Aristogatti, Midnight in Paris.
Ne ho letto un po’, dal più grande autore francese di tutti i tempi. “Zola?!” – diranno subito i miei Piccoli Lettori. No.
“Hugo!” – nemmeno.
“Ah, Flaubert!” – acqua.
“Dumas” – mais non.
“Dumas l’altro” – niet.
“Maupassant?” – nein.
Pennac!
Con tutta l’offerta gastronomica francese che si può trovare nella capitale, l’unica cosa che voglio mangiare a Parigi è un piatto di cous-cous a Belleville, dopo di che, il mio desiderio principale legato a questa città può dirsi soddisfatto (Bruce a parte, non perdiamo di vista il vero obiettivo del viaggio). Io ancora non lo so, ma avevo più probabilità di farmi rapire da Springsteen che di trovare il mio Amar Ben Tayeb.

Le attrazioni turistiche sono innumerevoli e il programma è fitto.
Per il primo giorno, visto che il tempo è sereno, stabiliamo di visitare i monumenti che si vedono “da fuori”.

Tour Eiffel: via il dente, via il dolore.

La Tour Eiffel è una di quelle cose di cui, secondo me, non frega un cazzo a nessuno.
È una struttura di metallo senza scopo, oggettivamente non bella, che fa a cazzotti col paesaggio e che i Parigini avrebbero dovuto smantellare all’inizio dello scorso secolo, quando ne avevano la possibilità.; anzi: avrebbero dovuto dar retta agli intellettuali e non tirarla neanche su. Ormai che c’è, però, pare che se vai a Parigi e non vai a vedere la Tour Eiffel sei un cretino.

Della Tour Eiffel mi sono piaciute le dimensioni – è molto, molto più grande di come sembra nei film – e il magnetismo: è capace di attrarre centinaia di individui che fanno la fila per salirci sopra, probabilmente perché è uno dei pochi posti di Parigi da dove non la si vede, dando luogo a quel meraviglioso spettacolo che è il turismo.
Io potrei passare ore a fare boorwatching, a guardare bambini di ogni lingua e colore fare (sacrosanti) capricci e rompere i coglioni, e madri altrettanto variopinte reagire con la stessa, universale, isterica inadeguatezza, padri tutti disinteressati allo stesso modo e allo stesso modo presi dalle funzioni della nuova fotocamera, vecchie di ogni nazionalità che sbuffano e provano a fottere un paio di posizioni, che mi fanno capire che c’è gente in fila prima dell’orario di apertura anche fuori dagli uffici postali di Mosca, Tiblisi, Nuova Delhi, Singapore e Il Cairo. A Tokio no: pare che in Giappone siano tutti rincoglioniti, oppure credono che l’attrazione sia la coda, perché non procedono nemmeno quando è il loro turno, figuriamoci se si muovono quando non lo è.




Ovviamente, faccio un casino di foto al forchettone, da sola, con me, con Zzi, con me e Zzi.
Pur avendo le braccia da tirannosauro, ho sviluppato un’insospettabile abilità a farmi le foto da sola, e sono anche diventata capace di far stare lo sfondo, la faccia di Zzi e la mia nella medesima inquadratura.
Farsi autoscatti con il braccio teso, infatti, non significa quasi mai immortalare il soggetto desiderato.

Hotel des Invalides e Museé de l’Armeé: alègher, alègher!

Percorriamo, poi, un parco sterminato, e giungiamo all’Hotel des Invalides.
Oltre che essere vagamente demoralizzata dal sospetto che Parigi sia una metropoli enorme e che per quasi una settimana dovrò fare i conti con distanze siderali per una che vive in una città in cui tutto è nel raggio di cinquecento metri, dopo aver acquistato il pass di ingresso cumulativo ai principali musei ed essere entrati in questo primo sito, mi scema l’entusiasmo perché scopro che nemmeno Parigi è abbastanza lontana per liberarmi dalla maledizione degli ottoni: nel cortile c’è la banda.

Dovreste tutti saperlo, ma mi piace ripetermi: io sono perseguitata dalle bande.
Praticamente non sono padrona di muovere un passo fuori provincia, che mi imbatto in una banda. La maledizione è trasversale e riguarda sia le piccole bande di paese che le solenni fanfare. Se c’è un trombone nel raggio di venti chilometri, state pur tranquilli che quella che si prende la coulisse nel culo sono io.

Ci rifugiamo, dunque, nella zona espositiva dedicata ai conflitti moderni, che, dal mio punto di vista, si farebbe un gran bene a visitare, tanto per rammentare che guerra non fa nessuno grande.

Il fine cartografo che è in me (a dire il vero, prima l’ha notata Zzi, ma io subito dopo e senza aiuto) nota una lievissima imprecisione su una carta dell’URSS: Stalingrado (Volgograd) indicata al posto di Leningrado (San Pietroburgo).
Del resto, che differenza c’è? È pur sempre una città col nome di un dittatore, c’è solo uno scarto di quasi 1700 chilometri, ovvero un po’ più della distanza tra Vipiteno e Pachino, è quel genere di inezie che vediamo noi cagacazzi che ci battiamo per l’assenza dell’apostrofo tra “qual” ed “è”… seghe mentali da repressi, suppongo.Quando usciamo, mancano cinque minuti alla chiusura della visita alla vicina tomba di Napoleone, ma il ligio commesso non ci fa accedere.

Sai che c’è?
Tanto era un nanetto megalomane e non me frega un cazzo.

4 thoughts on “L’unica volta che vidi Parigi (5)

  1. Pillow

    non mi ha mai entusiasmato, la signora Parigi.
    forse per stizza con la razza francese, forse per l’odore di cipolla o quei soggetti in giro con il pane sotto l’ascella.
    forse perché non l’ho mai reputata divertente…
    insomma, di parigi ricordo bene solo le pasticcerie ed il Louvre.
    ah, e montmartre, dove credo di essere stata l’unica a rimediare (e foraggiare) una ritrattista londinese.
    e va be’…

  2. Larry Post author

    A chi lo dici!
    Non ci sono gatti, non c’è Malaussene e, soprattutto, non c’è Humphrey Bogart; il cibo è caro, la birra è proibitiva e un macaron costa UN EURO: pacco totale, insomma!

  3. Pillow

    we love Berlino! Dove mangi pure bene e bevi alla stragrande.
    O Dublino. Idem come sopra, e chi dice il contrario è andato cercando gli spaghetti alla puttanesca a temple bar.
    Ma anche New York (non per mangiare, però).
    Insomma, Parigi cara: sei storica, elegante, maliconica, ricca, ma sei anche un po’ la simona ventura delle capitali europee: tronfia, saccente, kitsch.

  4. Larry Post author

    Berlino!
    Ammazza se è buono il cibo a Berlino, e per molti meno euro ti danno anche una tovaglietta su cui tenere posate e tovagliolo e una passata al tavolo con lo straccio.
    Senza contare che non c’è nessuno che ti si rivolge in francese, il che è certamente d’aiuto.

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