Prosciutteria-Ristorante Martinuzzi, Racchiuso (UD)

      No Comments on Prosciutteria-Ristorante Martinuzzi, Racchiuso (UD)

Sottotitolo:

Faedis 21.10.2012 – Campionato regionale FVG CO, puntata 2.

Ecco finalmente arrivato il momento di parlare dell’evento clou della giornata della gara di Faedis (domenica 21 ottobre 2012): IL PRANZO!

Su consiglio di Elisa&Quellolì, dopo la gara ci siamo recati a Racchiuso, un paesino sulla statale 356 a metà strada tra Faedis e Attimis, nella Furlania in -is (“Furlania omnia divisa est in partes tres: toponimi in -is, in -icco e in -acco“, come tutti sappiamo), nella rinomata…

Prosciutteria Ristorante Martinuzzi, Racchiuso (UD)

Appena entrati, il locale non mi entusiasma: luci giallastre, grande bancone anni Ottanta e scaffale di sigarette dietro la cassa. L’ambiente è grande e pulito, ma sembra immaginato da Stefano Benni.
Veniamo fatti accomodare nella sala laterale, che si trova alla destra della porta d’ingresso (guardando il bancone); da buona orientista, capisco cazzi per razzi e mi dirigo dritta filata nella sala a sinistra. Zzi, nonostante l’infortunio, mi intercetta e mi riporta nel gregge con la consueta prontezza.

La sala, graziosa e raccolta, ha un aspetto decisamente più incoraggiante dell’ingresso: l’arredo è tradizionale, ma complessivamente più leggero, i tavoli sono apparecchiati con tovaglie e tovaglioli di stoffa, doppie forchette e bicchieri personalizzati per l’acqua e per il vino.
Quando arriviamo, l’ora di pranzo è già trascorsa, perciò immaginiamo che gli altri avventori – numerosi – siano già serviti, e che non dovremo attendere molto.
Le cameriere arrivano leggermente più tardi di quello che mi sarei aspettata, ma in compenso, da quando si prendono cura di noi, ci coccolano in maniera impeccabile.
Parlando da cameriera, non siamo la tavolata migliore in cui si possa sperare.

Siamo casinisti ed eterogenei, siamo visibilmente invasati per via di qualcosa cui abbiamo appena assistito/partecipato, di cui non facciamo che parlare disordinatamente, a gruppi di due o tre, i cui membri, a propria volta, portano avanti altre conversazioni con i membri di altri gruppi, non necessariamente contigui.

Il menu è stampato su fogli A5 e protetto da semplici buste in plastica per raccoglitori ad anelli. Non una ricercatezza, ma una buona soluzione per aggiornare le pagine in fretta e averle sempre pulite e, tutto sommato, non peggiore, da vedere, dei portalistini in finta pelle marrone che circolano nella maggior parte dei ristoranti. I fiocchetti di rafia che tengono insieme le pagine ci dicono che le intenzioni estetiche erano buone.

La carta propone un’ampia offerta di piatti tradizionali, il che, unito all’impressione globalmente positiva, mi calma molto.
Ero, infatti, intimamente sospettosa di un locale che si definisce “prosciutteria”.

Che cos’è, infatti, una prosciutteria?

È un posto dove si produce il prosciutto? No, quello è un prosciuttificio (altro termine non proprio emblematico dell’eufonia). Dunque è un luogo dove il prosciutto viene consumato. Tuttavia il suffisso -eria  non mi convince. La parola è chiaramente formata per analogia con termini come pizzeria, luogo dove la pizza viene – sì – consumata, ma soprattutto prodotta. È il concetto di produzione quello dominante in questo tipo di lemmi, credo, tant’è che si parla di conceria indicando il luogo dove la concia avviene, non quello in cui si sfoggiano le borsette, così come in stamperia si stampa e non ci si va per leggere gli stampati. In prosciutteria, il prosciutto viene somministrato, non prodotto, perciò il termine mi pare inadeguato.

Penso alle possibili alternative, e non ne trovo. Per un doloroso momento, mi balena nella testa “prosciuttoteca”. È chiaramente il sintomo di una grave malattia neurologica, ma il sollievo di constatare che questo orrendo termine non è stato usato è tale da farmi apparire “prosciutteria” quasi adeguato.
Se c’è una cosa che detesto – più delle farfalle, quasi più degli invorniti per la strada con l’ombrello, e molto, ma molto più dell’orienteering – sono i nomi dei locali per la ristorazione composti con “teca”. Credetemi: ne esistono. Tollero a malapena “paninoteca”, perché esiste da quasi prima di me, e ci sono abituata. Per analogia con questo orrore, sono nate altre parole spaventose. A Trieste c’è un’antipastoteca; sono venuta a sapere che si mangia bene, ma non riesco a metterci piede. Proprio non ce la faccio. Ho riscontrato anche l’esistenza di spaghettoteche, birroteche, salumoteche. Temo non manchino formaggioteche e bisteccoteche, ma non ne ho le prove. Sappiamo che in greco la θηκη è il deposito, il luogo dove si ripongono le cose destinate alla conservazione. Conservazione, per l’appunto, non consumo. La parola “spaghettoteca” mi fa venire subito in mente una specie di antro degli orrori, in cui vengono conservati piatti di spaghetti conditi a tutti i modi, risalenti a diverse annate; vedo pareti unte su cui stanno appiccicate una carbonara del ’78 accanto a uno “scoglio” del ’95. Mi fa impressione, non riesco proprio a pensarli come luoghi in cui si trovano cose da mangiare.

Cosa si mangia nella prosciutteria Martinuzzi

“Prosciutteria”, dunque, è il minore dei mali e poiché anche “Ristorante con specialità prosciutto”, sebbene infinitamente più eufonico, non sarebbe, comunque, del tutto veritiero, decido di non soffermarmi oltre e procedere alla lettura del menu (alla buon’ora).
Sul sito del locale (da cui l’immagine dell’insegna è tratta) trovate orari, esempi di menu e galleria fotografica.
Si contano diversi primi piatti, ma li salto a pie’ pari perché ovviamente contengono farina bianca e perché, si sa, non sono un’amante della pasta. Più tardi, la mia compagna di società Virgilia (la mia guida) mi farà notare che ci sono i ravioli di zucca con l’amaretto, una delle rare eccezioni alla mia scarsa attitudine ai primi di pasta, e io maledirò la dieta, Attilio che l’ha inventata, Elisa che l’ha scoperta, Venezia che è troppo vicina per fare uno strappo di questa portata e i miei culi – sempre loro – che rendono tale regime necessario.

Ci sono molte proposte interessanti a prezzi apparentemente contenuti, e io mi devo consolare della rinuncia ai ravioli e premiare per essere andata nel bosco tutta da sola. Decido che, come al solito, dimagrirò domani e ordino la grigliata classica. Per stornare da me ogni senso di colpa, mi faccio portare le verdure cotte anziché le patatine fritte.

Il Brioso Ballerino sposa la mia scelta, ma non così a fondo da rinunciare alle patatine fritte, Virgilia e Madame K cedono al carboidrato (loro che possono) sedotte dagli gnocchetti alla San Daniele, con  dadini del prelibato prosciutto crudo e formaggio (che decido essere montasio, ma non ho le prove), Zzi ordina il piatto friulano, con salumi, insaccati, formaggio e polenta, e nei piatti degli altri vedo bistecche, polenta coi funghi, pastasciutte e frico.
L’aspetto delle pietanze è invitantissimo e tutti si dicono contenti, sia della qualità, sia della quantità, che non lascia affamati. Nel mio piatto conto: una bistecchina di manzo non poi così piccola, due pezzi di pollo, una salsiccia grande, mezzo wurstel e due pezzi di polenta; con il contorno di spinaci e verze bolliti, possono bastare.
Solo il Grande Barto non è contento della quantità di frico che consuma, non perché la porzione uscita dalla cucina non sia generosa, ma perché ne abbiamo tutti assaggiato un pezzetto e, quando il piatto gli ritorna davanti, la squisita preparazione è abbondantemente mutilata.

Questo giovane d’appetito, dopo due portate, era incline a ordinare anche il dolce, ma poiché quello da lui scelto era finito e nessuno lo ha seguito nel proposito, ha rinunciato, dando il via all’ordinazione del caffè.
A mio gusto, il caffè è la cosa meno buona arrivata in tavola: era un po’ troppo amaro e aveva un sentore di “bruciaticcio” troppo spiccato. A voler fare un commento campanilista, era il tipico caffè friulano, troppo tosto per il sensibile palato triestino perché pensato per reggere la correzione con la grappa… ma nella diatriba Trieste-Udine sul caffè non ho voglia di addentrarmi ora (e forse non l’avrò mai).

Complessivamente molto sazi e contenti dell’esperienza, ce la caviamo con quindici euro a testa.
Nonostante avessimo fatto di tutto per incasinare le ordinazioni, la cucina non ha sbagliato niente, non è mai mancato il pane in tavola (che doveva essere molto buono, giudicando dalla velocità con cui spariva, ma che – piena di virtù – non ho toccato), non siamo rimasti troppo tempo con il piatto vuoti davanti o senza bevande, e il personale è sempre stato garbato e disponibile, e al tempo stesso capace di farsi dare retta, anche se eravamo tutti presi dalla pianificazione della staffetta di Aviano:

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.