Ristorante Madonna di Como, Madonna di Como [Alba], CN ✎✎

A dispetto del nome, la località Madonna di Como è una frazione di Alba [CN].
Il paese è costituito essenzialmente dalla chiesa, nel cui retro è situato il ristorante, bar, tabaccheria.
L’arredamento è decisamente ruspante, con le pareti tappezzate di quelle finte pergamene da bancarelle con i motti popolari e avvisi del tenore “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno”. Uno di questi cartelli suona ironicamente sinistro: “mangiando a Madonna di Como il tempo si ferma un po’”.
Infatti, qui, un pranzo richiede almeno tre ore. Una delle quali trascorsa in piedi come fessi col portafogli in mano davanti alla cassa, senza che per questo il proprietario accenni a far di conto.
Sapendolo, prenotiamo per le 12,30, sebbene il padrone ci assicuri che non ci sia alcun bisogno di prenotare perché da lui “non ci va nessuno”. Infatti è pieno e quando arriviamo i tavolini da due sono finiti. Scegliamo quello da quattro di fronte al banco, a quindici centimetri dal fancoil. La tovaglia di cotone a quadrettoni è corredata di coprimacchia in carta usa e getta, ma il tovagliolo è in stoffa e, sebbene piatti e posateria siano piuttosto semplici, i bicchieri cantano.
Intorno a noi, sugli scaffali, appese ai muri, sui davanziali e, in generale, su ogni sporgenza che aggetta dal muro più di otto centimetri, le bottiglie della ricchissima cantina, molte della quali non in vendita.

Appena arrivati, il padrone ci offre come aperitivo un dolcetto Ratti, che accompagniamo con qualche fetta di salame del contadino, “fatto come una volta”. Per il palato cittadino, abituato a prodotti industriali e raffinati [nel senso di trattati come attraverso una raffineria, non nel senso di sopraffini] è troppo fresco, troppo grasso, troppo sfaldato. Praticamente è porco crudo ed è una prelibatezza, succulento e bisognoso di masticazione, caldo delle parti grasse e fresco di pepe. Per il pasto scegliamo una bottiglia di nebbiolo, sempre Ratti. La cameriera viene in nostro soccorso proponendoci anche l’acqua, che il padrone non aveva minimamente preso in considerazione, avendo invece accuratamente disposto per pane e grissini. È che lui a queste miserie non bada.
Arriva ora la carica degli antipasti: l’offerta è ampia, ma le dosi sono esagerate e dobbiamo limitarci a due scelte, consapevoli che una sarebbe più che sufficiente [“il bue che dà del cornuto all’asino”, mi par di sentir commentare]. Scegliamo la carne cruda e la lingua. La carne cruda all’albese è una pietanza molto facile a prepararsi: si prende la carne – magra – e la si batte a coltello, tritandola finemente; vale anche passarla nel tritacarne a manovella. Dopo di che, la si mette in una ciotola e la si porta in tavola. Così: senza puttanate di sottaceti, senape e aglio, come nella tartara. Ciascun commensale potrà condirla a piacimento. In stagione, alcuni la consumano con una grattatina di tartufo. A me piace così, nuda, senza aggiunte, con il solo gusto di muscolo e sangue. Ne mangiamo una cuffa, dopo la quale siamo già sazi.

Il padrone si intrattiene con i clienti mentre questi pranzano e a noi fa l’onore di ostendere i tartufi sotto al naso. Zzi è molto colpito, io ho quasi i conati dal tanfo.
Mentre ancora ci stiamo palleggiando la mucca tritata che abbiamo in tavola, ci viene servita la lingua con la salsa verde. La salsa verde che preparano in Langa è diversa da quella genovese: presenta delle componenti rosse, che hanno tutta l’aria di essere peperoni, tuttavia è ugualmente appetitosa e invoglia anche questa alla scarpetta col pane [giusto per non riempirsi lo stomaco inutilmente].
A questo punto siamo satolli, ma ci vergogniamo a non ordinare altro. Zzi prende i taglierini all’uovo fatti in casa, con la grattata di tartufo. A occhio e croce – considerando che la pasta all’uovo ha una scarsissima resa in cottura – saranno mezzo chilo, forchettata più, forchettata meno. Io prendo il capriolo in umido cotto nel vino. È tenerissimo. Chissà com’era carino da vivo, chissà che musetto dolce, che sguardo vispo; chissà com’era liscio il suo pelo e com’erano scattanti le sue zampette…chissà cosa stava facendo quando il cacciatore gli ha spanto il cervello per tutto il bosco. Provo una profonda riprovazione verso di me, ho disprezzo della mia mollezza d’animo e del mio egoismo. Ma ho molta gratitudine verso la cuoca che ha così bene onorato le spoglie dell’animale.

Sono passate le tre e – essendo praticamente ora di merenda – ordino il misto di dolci della casa, così ho modo di assaggiare: il bunet, il tipico budino casalingo al cioccolato tipico del Piemonte; la panna cotta, anche questa fatta in casa, come chiaramente si evince dalla consistenza rilassata, dal gusto intenso e dalla grassezza prossima a quella dello strutto; il salame di cioccolato, quasi più buono del mio, fatto con molte nocciole, che lo rendono dolce e piacevolmente “lubrificato”; la torta di nocciole delle Langhe, un cugno [triestino: lett. “cuneo”, nel senso di blocco di pietra molto solido, per estensione detto di cosa o persona pensante] di antimateria grande come una scatoletta di fiammiferi, ma pesante come un bidone di polonio. Nonostante l’alto valore nutritivo, questa torta è molto buona e appetitosa perché poco dolce e dalla consistenza sorprendentemente pulita in bocca.

Il padrone ha cercato di farci arrestare all’alcol test offrendoci svariati digestivi, ma noi siamo stati fermi sulle nostre posizioni e abbiamo continuato a chiedere il conto. Prima di dover diventare sgarbati, il padrone si è ricordato che abbiamo davanti cinquecentoquaranta chilometri e, mosso a compassione, ha sparato una cifra qualsiasi, che noi gli abbiamo corrisposto senza batter ciglio, pur di essere rilasciati. È stato, comunque, un riscatto molto onesto.

Usciti alle quattro passate, perdiamo ancora un po’ di tempo [tanto ne abbiamo] per aspettare un mio caro amico, al quale diamo il consueto nome di fantasia, Defe di Defe&Tardu, che voglio a tutti i costi salutare. Per la prima volta in dieci anni lo vedo senza l’amico Tardu e al fianco di una bella ragazza, che chiamerò Kimmy. È molto carina, pesa circa un terzo di me, ma mi arriva comunque al mento, veste sobriamente e porta calzature femminili, ha lineamenti molto graziosi e sguardo espressivo.
Quindi la odio.
Lei, invece, strepitosa nella sua superiorità, è verso di me molto cordiale e affatto invadente. Quando si allontana per rispondere al cellulare, offre il fianco: “C’ha la suoneria di Tiziano Ferro”, constato acida [che per noi rocchettari è un po’ come per uno della lega averci la morosa abruzzese, cioè terrona e dipietrista in un colpo solo].
Ma l’innamorato la difende “Ma sì, ma no, ma è una fan di Bon Jovi, è una fan di Bruce… È fan di Springsteen, sai?”
“E quanti concerti ha visto?”
“Neanche uno.”
“….”
“Va beh, ma le piace!”. È proprio amore, e mi si contorcono le budella. Il tempo è tiranno ed è bene portare in salvo l’adorabile Kimmy prima che io mi tolga gli occhiali e glieli conficchi con tutta la mia forza nella giugulare: “Ciao, piacere d’averti conosciuta. Se lo fai soffrire, ti ammazzo”.

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