Settima Cena Regionale: la Sardegna. Primo piatto, Malloreddus con il sugo (3)

Come non faccio che ribadire, non sono un’amante della pastasciutta.
Come dico ogni volta che lo ribadisco “questa è diversa”, giustificando, così, il gradimento di un primo a  base di pasta che va ad ingrossare una fila di eccezioni che fra non molto supererà quella della regola.

Io ho per i malloreddus una segreta predilezione, anche se, dopo aver scoperto la ricetta originale grazie a questa cena, non credo di aver mai realmente mangiato autentici malloreddus sardi, neppure adesso che li ho preparati con queste mani (proprio perché li ho preparati con queste mani).
Già in età infantile, però, ero stata conquistata da quelli confezionati. Credo che fossero prodotti dalla Barilla, ricordo una scatolina di cartone blu e, a ripensarci, in quegli anni non entrava altra pasta in casa nostra; avevo appena iniziato le elementari e già da qualche anno la Fininvest aveva copertura nazionale: escludo che i nostri consumi conservassero la minima traccia di libero arbitrio.

Quei malloreddus, che pure erano un prodotto industriale senza altri ingredienti dichiarati che acqua e semola, mi piacevano molto perché restavano duri come pallini da schioppo (all’epoca avevo tutti i denti ed erano pure nuovi e funzionanti), erano lisci sotto la lingua, ma imprigionavano un sacco di sugo, grazie alla loro forma a conchiglia. Più che a conchiglia, erano fatti a scarafaggio, anzi, considerando il loro colore e le righe sul dorso, a larva. Naturalmente l’idea delle larve mi disgustava e, di conseguenza, esercitava al contempo una perversa attrazione.
Mi piaceva incastrare la lingua fra le pieghe dello gnocco e leccare il sugo da dentro, prima di portare lo gnocco sotto i molari. Il più delle volte rischiavo di soffocarmi durante la manovra, destra come son sempre stata, ma non mi pareva un buon motivo per non farlo.

Nella mia testa, quindi, i malloreddus sono sempre stati una pasta buonissima, anche se non avevano niente di diverso dagli altri formati, se non l’aspetto, così non ho voluto rinunciare a portarli in tavola, pensando – stolta ignorante! – di comprarli fatti e dedicarmi al sugo.

Leggendo la ricetta del manuale del Corriere della Sera (sempre quelli), però, apprendo che il vero malloreddu (fingiamo che sia questo il singolare di malloreddus) ha lo zafferano nell’impasto.
E dove trovo, a Trieste, un pastificio che faccia i malloreddus impastati con lo zafferano?
Non perdo nemmeno tempo a cercarlo: compro la semola e me li faccio da sola!

Settima Cena Regionale: la Sardegna. Primo piatto, Malloreddus con il sugo

Per preparare i malloreddus mi attengo scrupolosamente alla ricetta pubblicata sul libro, sprezzante delle dicitura “difficoltà: elevata”.

Ingredienti per 4 persone (siamo noi!)

4 etti di semola – cazzo è? Non è farina?
No, non è farina. Cioè sì, è “farina” in senso lato, in quanto prodotto della macinazione del grano, ma la semola è farina di grano duro, mentre la farina comunemente detta è farina di grano tenero.

1 bustina di zafferano di Sardegna – e dove lo prendo lo zafferano di Sardegna a Trieste? Senti mo: ci metto lo zafferano in pistilli che, anche se non fosse sardo, sarà comunque migliore di quello in polvere nelle bustine.

olio e.v.o – ce l’ho! Ho la casa piena di extra-vergine, devo ancora smaltire le scorte dell’incursione a Olio Capitale e da Zanovello: ne ho di ligure, di veneto, di siciliano e di pugliese, e di recente me ne hanno pure regalato una bottiglietta di una varietà prodotta a Muggia, ho solo l’imbarazzo della scelta. Non una goccia di olio sardo, comunque.

sale – ho anche questo, pare che non ci siano richieste particolari sulla provenienza di questo ingrediente

farina per la spianatoia

 

Procedimento

Leggo nel ricettario: “Preparate la pasta con la farina, un cucchiaio di olio, la bustina di zafferano, una presa di sale e l’acqua sufficiente un impasto compat…”, be’, una cazzata, dai.
Allora, prendo la farina… aspetta, aspetta, aspetta. Quale farina? Fanculo, mi hai fatto comprare la semola e ora vuoi la farina? Cazzo, esprimiti, o me la chiami “farina di grano duro” o me la chiami “semola”, perché per “farina”, in un registro linguistico generico come quello di un ricettario, si intende la farina di grano tenero.

Rileggo gli ingredienti per la pasta (magari ho saltato una riga e si usano sia la farina di grano duro che quella di grano tenero): sono esattamente quelli riportati poca’anzi.
Rileggo la ricetta: dice proprio “farina”.
Lo faccio tre o quattro volte sperando che le parole si trasformino per magia dando luogo a un periodo univocamente interpretabile, ma la realtà è noiosa e i vocaboli restano quelli fissati dalla tipografia.

Sono le nove di sera (i malloreddus si preparano la sera prima, perché devono essiccarsi e perché tornando a casa dall’edicola alle 18.30 non ho speranze di preparare tutta la cena se devo appena impastare gli gnocchi!), ho un chilo di semola che non so come usare altrimenti e il mio cuore mi dice che se provo a fare i malloreddus con la farina integrale, allora sì che porto in tavola un piatto di larve col sugo (♫ hakuna matataaaah ♪).

Metto un grammo di pistilli di zafferano (sei euro! Prossima volta: gnocchi alla cocaina, costano meno) in infusione in acqua calda e peso 400 grammi di semola, alla quale, in un impeto di accuratezza, mescolo subito un cucchiaino raso di sale, affinché si distribuisca uniformemente nell’impasto.
Do un’occhiata allo zafferano in infusione: è bellissimo, l’acqua si è colorata in gradazioni concentriche e progressive dal rosso al giallo. Ci metto un dito e lo tiro fuori color canarino (e anche un po’ scottato); l’unghia mi resterà gialla fino al pomeriggio successivo.

Dopo essermi stufata di contemplare lo zafferano, faccio la pasta con la semola già salata, l’olio, l’acqua dell’infusione (e i pistilli) e l’acqua limpida necessaria ad ottenere l’impasto.
Ho capito perché lo chiamano “grano duro”: dà luogo a impasti assai coriacei; impastare la semola è faticosissimo, è molto – ma molto – più dura dell’argilla. Aggiungendo acqua, ovviamente, il problema si risolve, ma io avevo timore di bagnare troppo l’impasto, così mi sono scaraventata sulla mia palla di acqua e semola con tutto il mio peso e molto accanimento, avendone ben presto ragione.

In compenso, impastare la semola è una figata, perché non è collosa come la farina di grano tenero: è come più asciutta, non si attacca alle mani né alla spianatoia, che restano pulite, e permette di non imbrattare i dispositivi elettronici utilizzati per testimoniare la preparazione.

Ricavare dei rotolini di circa cinque millimetri di diametro da tagliare nella lunghezza di un paio di centimetri per poi ricavarne degli gnocchetti era chiaramente un’impresa impossibile, nella quale non ho neanche lontanamente ipotizzato di imbarcarmi.

Tenendo l’impasto un po’ più asciutto, posso permettermi di inumidirne man mano le porzioni che stacco per formare i colombini, evitando che mi si sbriciolino sotto le dita, ma non riuscendo, comunque, a ottenere un cicciolino più lungo di dieci centimetri.
Non faremo scontate battute sconce sulla capacità di ottenere cannoncini più lunghi manipolandoli!

I rotoli di pasta che ricavo sono troppo spessi per formare dei veri malloreddus, ma sono le dieci: è ora di battersene il belino e fare molloreddus grandi come canederli. E andare a dormire.
Con dei tocchetti di pasta di due centimetri per due (quando sono stata attenta a farli piccoli) formo degli gnocchi rigati e arrotolati, strofinandoli e premendoli contro il dorso di una forchetta.
Poiché la pressione che applico non è regolarissima, ottengo delle conchigliette con un labbro spesso pochi micron e l’altro alto due dita, ma sono le dieci e mezza passate e ce ne dobbiamo battere il belino. Il prossimo andrà meglio.
Macché.
Va be’, allora il prossimo.
Neanche.
Il prossimo nel senso di quello dopo quello imminente, quindi questo che viene.
No.
Allora questo prossimo qua.
Appena appena
Questo, allora, di sicuro.
Peggio di tutti.
Ok, con calma, questo viene.
Ciccamelo.
… e così avanti per tutto il panetto di impasto.

Alla fine ho ottenuto una ventina di malloreddus, ciascuno pesante come una palla di cannone, ma era quasi mezzanotte e, di conseguenza, mi sono sembrati perfetti.

Ho gestito la forchetta contro la quale ho formato i malloreddus come il manubrio della bici, cioè applicando forze opposte (uguali e contrarie? chissà…), ferendomi ripetutamente il pollice destro. Con esso, infatti, schiacciavo la pasta contro i rebbi, trascinandola verso il basso. Per ragioni ancora oscure, con la mano sinistra, anziché limitarmi a tenere ferma la forchetta, la tiravo verso l’alto. Giunto il pollice destro alla fine della sua corsa, la forchetta, cui repentinamente veniva a mancare la forza contrastante quella della mano sinistra, veniva liberata e compiva un rapido movimento a catapulta, graffiandomi così il pollice destro, che non avevo spostato abbastanza presto.
È stato così per ogni malloreddu, ma grazie allo yoga e alle maggiori coordinazione e consapevolezza motoria che mi ha donato ho ancora entrambi i bulbi oculari nelle orbite.

Ho lasciato asciugare le larve sulla madia e la mattina dopo mi sono ritrovata con un piatto di proiettili gialli

Non ci sono testimonianza dei malloreddus nel piatto, dove, grazie al sugo di Elisa, hanno riguadagnato dignità e, pur avendo consistenze che andavano dal “Gentalin beta” al “Marmo apuano”, sono diventati una prelibatezza; in compenso, c’è il video di me che impasto.
Il mediometraggio è – come dire? – “ispirato al cinema delle origini” e conserva, dunque, tutti i tempi morti del racconto. Nonostante questo, sul più bello c’è un buco diegetico da paura, maldestramente compensato con una narrazione.

Prima che mi lasciate messaggi di insulti (vi ricordate la casella vocale, vero? Basta cliccale sulla linguetta arancione a destra!) perché avete perso mezzora della vostra vita a guardare un noiosissimo video inutile, sappiate che esso non aggiunge alcuna informazione a quanto scritto fin qui e che richiede un forte senso del demenziale per essere apprezzato.

Soggetto e sceneggiatura: Io
Regia: Io
Voce fuori campo: Io
Interprete principale: Io
Scenografia: Io
Costumi: Io
Fotografia: Io
Audio: Io
Riprese: Io
Riprese un po’ più belle: Zzi
Miglior attore non protagonista: Zafferano
Miglior attrice non protagonista: Semola
Miglior interpretazione: I malloreddus

2 thoughts on “Settima Cena Regionale: la Sardegna. Primo piatto, Malloreddus con il sugo (3)

  1. Pingback: Pardulas, barchette di ricotta tipiche della Sardegna | LARRYCETTE

  2. Pillow

    “metto un grammo di pistilli di zafferano (sei euro! Prossima volta: gnocchi alla cocaina, costano meno”) = da oggi ti adoro un po’ di più!

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