Taverna San Trovaso, Dorsoduro 1016, Venezia [2]

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Se vi dico che la frittura era ben fatta, quindi, potete credermi. La porzione, davvero generosa, si componeva di calamaro (o totani, non mi ricordo mai qual è il piccolo e qual è il grande…e comunque questi erano di pezzatura media), code di gamberi (buooooni, dooooolci, moooorbidi), pescetti (in triestino “ribaltabastimenti” in veneziano non lo so, in italiano neppure; in genovese si chiamano proprio “pescetti” e sono quei pesciolini argentati lunghi si e no 5 centimetri dal corpo a cono che si mangiano interi, ai quali io tolgo comunque la testa) e occhi di squalo. Dalla regia mi dicono che sono capesante sgusciate, a me sembrano occhi di squalo e li rifilo equamente nei piatti dei vicini, tutti contenti di mangiare capesante. Tanto a me le capesante fanno anche più paura degli occhi di squalo.
Zzi si è distinto e ha ordinato una zuppa di pesce che lo ha entusiasmato. A me un po’ meno, perché mia madre è la migliore cucinatrice di zuppa di pesce del mondo degli ultimi 1500 anni e – davvero – non auguro a nessuno di assaggiare la sua zuppa di pesce perché è così buona, ma così buona che qualsiasi altra mangiata dopo sarà sempre inferiore e, allora, perché essere infelici? Meglio non sapere cosa ci si perde e apprezzare tutto il resto. Comunque va riconosciuto che questa zuppa era buona.

Come secondo lui ha ordinato il fegato alla Veneziana. L’odore è ottimo e Zzi ne è contento. Io non lo assaggio perché ho paura che sia duro e mi faccia cicigolo. Chiedo se è più duro di quello di mia madre e Zzi conferma, ma dice anche che di gusto è delizioso. Ci tengo a specificare che mia madre è la migliore cucinatrice di fegato alla veneziana del mondo degli ultimi 1500 anni, dopo mia nonna. Quest’ultima ha tramandato alla prima la tecnica segreta per rendere il fegato infallibilmente tenero.
È talmente una menata che posso rivelarvi il segreto, tanto non vi mettereste mai a fare quello che fa lei: si prende il fegato di vitello in pezzo intero e lo si spella. Ebbene sì, il fegato è coperto da una pellicina – tipo quella delle seppie, credo, solo che io mi sono sempre ben guardata dall’avvicinarmi a una seppia – che va rimossa. Dopo di che lo si taglia a fettine sottili come petali di rosa e si rimuove il reticolo di vene man mano che esso viene fuori. È un lavoro titanico. È una rottura di coglioni senza precedenti. Perciò è normale che chiunque altro cucini un fegato leggermente meno tenero di quello di mia madre.
Sono l’unica a chiadere il dolce, ma poi la squadra mi segue: l’asceta opta per la meringata affogata nell’espresso, tutti gli altri prendono il sorbetto. Io, che sono una persona seria, prendo il dolce della casa, una torta con ricotta e cioccolato. È buona, ma è stata intiepidita nel microonde per qualche ora di troppo e mi arriva nel piatto a ottanta gradi: avrò la punta della lingua che raspa per due giorni.

Il giudizio è complessivamente positivo, l’atmosfera è accogliente, le stoviglie e il tovagliato dignitosi, l’illuminazione soddisfacente, l’ambiente pulito. Elisa e io rimaniamo clamorosamente deluse solo dal cesso, che è proprio un cesso, nel senso che il pavimento è zozzo e gli arredi sono provati dal passaggio di milioni e milioni di turisti. Non abbiamo avuto, sia chiaro, l’impressione di un posto sporco, bensì di un luogo sporcato da un uso massiccio. È che l’eccellenza in altri campi ci ha creato aspettative tali da renderci assai poco tolleranti verso questa carenza.
Ciò non toglie che ci torneremo.

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