Cenone della vigilia di Natale 2010

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Buon Natale, miei Piccoli Lettori.

Ho pensato di far coincidere il mio ritorno con l’avvento del Messia, sapendo che avrei retto il paragone.
Non aggiorno da tempo il blog non perché non abbia niente da raccontare, bensì perché ho impiegato il tempo del racconto a fare cose e vedere gente.

Ora avrei materiale fino a Giugno, ma ho anche la memoria corta, quindi rassegnamoci alla lacuna e ripartiamo dalla fine.

La famiglia di Zzi usa festeggiare il Natale non con il pranzo del 25, come nella maggior parte delle regioni del nord Italia, fra cui il Friuli, ma, in piena usanza triestina, con il cenone del 24, dal quale mi sono appena ripresa.

Poiché la tradizione vuole che la cena sia a base di pesce, non si può preparare niente in anticipo, se non il patè di tonno, che richiede, comunque, un impegno minimo.
Io lo faccio così: acchiappo 4 scatolette di tonno (2 all’olio e due al naturale, ma non è che la ricetta preveda questa divisione, è che queste erano quelle che avevo in casa) e ne sbatto nel robot da cucina. Le tiro fuori, le apro e metto nel frullatore solo il loro contenuto ben scolato e strizzato, gettando le latte nella rumenta. Aggiungo (al contenuto del frullatore, non a quello della rumenta) due o tre cucchiai di capperi, uno di maionese (se ce l’ho, se no niente) e un bel tocco di burro, già un po’ molliccio, e frullo tutto finché non diventa una cremina; dopo di che, lo imbelino in frigo coperto da un minimo di pellicola e me ne dimentico fino a mezz’ora prima di servirlo, quando lo tiro fuori per non portare in tavola materiale edile.

Accanto ad esso abbiamo servito un antipasto complicatissimo: salmone affumicato.”Ah ah”, diranno subito i miei piccoli lettori, “le solite facezie di Larry”. “Facezie” un par de ciufoli! Sfido chiunque a prelevare le fette di salmone dalla busta senza dilaniarle con la forchetta e disporle sul piatto di portata senza che sembrino già masticate. Anzi, sfido chiunque a prelevare le fatte di salmone – anche con le dita – dall’untissimo vassoietto di cartone senza lacerarle. Se, come me, avete a disposizione uno Zzi, è il momento di usarlo.

L’antipasto tiepido era costituito da gamberi sgusciati (da Zzi) saltati in padella e sfumati con cognac e succo di pompelmo. Il vantaggio di una suocera celiaca è che sei esonerato dal portare in tavola laboriosissime puttanate tipo vol-au-vent, canepè e altre vaccate dal nome francese che richiedono ore di preparazione e pochi istanti per esser divorate. Certo, per il dessert non puoi schiodarti dal gelato, ma tutto non si può avere!

Dopo un intervallo di venti interminabili minuti, nei quali gli argomenti di conversazione erano andati esauriti al quinto, ho servito come primo piatto una variante del risotto al limone del Previdente Presidente. Non era neanche lontanamente buono come quello del Previdente Presidente, ho il sospetto che questi abbia “involontariamente” omesso qualche passaggio o ingrediente fondamentale. Ne tengano conto coloro che vorranno provare a fare la jota secondo la ricetta da lui rivelata in esclusiva per l’agenda. Ad ogni modo non era male; io ci ho aggiunto, a cottura ultimata, dei dadetti di tonno fresco saltati a parte in padella, che lo hanno salvato dalla totale insipienza (nonostante i quali il risotto richiedeva ancora un po’ di sale, ma non è questa colpa del Previdente Presidente: sono io che sono tracotante e non assaggio mai).
A questo punto i commensali sono devastati (credo che si siano fatti un panino col cinghiale prima di venire da noi, perché vi assicuro che le dosi erano tutt’altro che abbondanti), ma tanto il secondo era lungi dall’esser cotto e un’altra mezz’ora è trascorsa tra sospiri e frasi di circostanza, fin quando mia suocera non sblocca la situazione e fa scattare la distribuzione dei regali. Un quarto d’ora se ne va tra gioia e ringraziamenti e a momenti il secondo mi passa la cottura. In zona cesarini porto in tavola filetti di merluzzo al forno con patate, olive e pomodorini, che danno il colpo di grazia ai commensali, tranne che alle teen-ager, che – pur lamentandosi che “è troppo, è troppo, non siamo

abituate a mangiare così tanto” – spazzolano tutto senza batter ciglio.

Al segnale convenuto, la truppa si alza come un sol uomo e abbandona il campo lasciandoci con i resti della battaglia. Noi risolviamo il problema brillantemente: lo ignoriamo e andiamo a dormire.

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