Il marinaio e la balena alla volta del Profeta [5]

Il Lambrusco (sempre al Canon d’Oro di Parma)

Lungi da me offendere un’intera popolazione che sul Lambrusco ha fondato una civiltà. Lungi da me fare l’intenditrice di vini, perché non lo sono e perché non lo voglio diventare. io divido i vini in quelli che “mi piacciono” e quelli che “non mi piacciono”; se la statistica dice che il mio palato si orienta su etichette non proprio “da tutti i giorni”, considero la cosa una mezza sfiga, non il segno di un palato raffinato. E poi, non è neanche che il mio palato si orienti su chissà che etichette, la verità è che del vino non sono un’appassionata amante e l’apprezzamento della bottiglia è ampiamente influenzato dalla condizione di consumo, perciò – sebbene in un ipotetico confronto diretto potrei riconoscere la superiorità del secondo – ho ricordi più lieti di infime bonarde da ribotta che di sublimi amaroni da meditazione.

Però il Lambrusco è, lui sì, un’esperienza organolettica preclusa ai palati alloctoni. Forse c’è un collegamento fisiologico fra le papille blindate che permettono di apprezzare il Lambrusco e la erre uvulare degli indigeni. Forse loro modulano la /r/ sul palato molle con la parte posteriore della glossa perché la punta della lingua è borchiata e si dilanierebbero gli alveoli al primo “grazie”. Fatto sta che io non sono abituata alle bollicine. Non mi piace neanche lo spumante, men che meno lo champagne; l’unica cosa con le bolle che bevo è l’acqua tonica [e comunque la remeno con la cannuccia per sgasarla un po’]. La birra non ha le bolle, l’aria che vedete nella birra è il respiro di Dio. Insomma, era tutto buonissimo, ma credo che avremmo apprezzato ancora di più le pietanze se fossero state accompagnate da qualcosa di più fermo e meno aspro. Anche un Alka seltzer col limone, per dire.

 

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