Lipica Open 2014 [5] – lunedì 10 marzo

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Nutrito di muschi e licheni il mio ospite, lunedì mattina partiamo alla volta di Marezige, per la terza gara di Lipica Open, in una formazione e con mezzi inediti. Escono dall’affollata locanda per orientisti i seguenti atleti, così bardati:

rem: scarpa sportiva, calzone sportivo, maglia, giacca, sciarpa e coppola d’ordinanza, orizaino in spalla;
Larry: scarpe, pantaloni e maglia da gara, maglia a manica lunga sotto quella del G.U.D, per non nasconderla, felpetta di cotone autoprodotta con le insegne della nostra giovane ma rispettabile società; niente giacca e niente in testa, tanto c’è il sole e nei giorni scorsi si scoppiava di caldo; zainetto con le banane;
Zzi: mocassino stringato in cuoio spazzolato tinta nocciola, abito di taglio sartoriale grigio, in lana, con giacca monopetto, camicia bianca in cotone con polsini chiusi da gemelli, cravatta in seta, cappotto in lana;

C’è qualcosa che non va.
Zzi vestito di tutto punto per l’ufficio e io in costume da orientista che saliamo – con rem – sulla macchina di un CP in tenuta sportiva è una scena eccezionale, e mi rammarico che ci siano così pochi testimoni. Zzi non è felicissimo della sua sorte.
Siccome non ho la minima idea di quello che mi attende, e la carta del giorno prima – a detta di tutti la più tremenda – non mi aveva messa del tutto in crisi a livello emotivo, io, nonostante sia dispiaciuta per l’assenza di Zzi, sono piuttosto euforica per la giornata in gita.

Lasciamo Zzi in ufficio, troviamo il Celere Capellone a Muggia e al ritrovo ci congiungiamo anche con la Veloce Violinista, il Grintoso Grafico e il tifoideo Speaker (lo chiamo così per semplicità, non perché l’abbia perdonato, dato che insiste), la cui tenuta, dico per completezza, è così composta:

–  scarpe e pantaloni sportivi, 4 maglie, una camicia, due giacche, paragola, fascia pseudo-sportiva che si capisce che è per la sinusite, berretto.
Sul luogo del ritrovo tira un vento e fa un freddo tale che è lui il solo vestito appropriatamente. Tutti gli altri sono cascati, come me, nel tranello del sole splendente, si sono vestiti come ai Croatia Open e manifestano i primi segni di ipotermia. Poi, per fare la gara, Spi si toglierà il berretto e le giacche, ma solo perché abbiamo insistito, affinché non fosse scambiato per un passeur fuori tempo massimo.

Qua, però, di “fuori tempo massimo” ce n’è una sola, e ovviamente non parlo della Veloce Violinista, il cui risultato va in vacca per un disguido organizzativo, ma che conduce, come sempre, un’ottima gara.

Nonostante i preziosi consigli del Celebre Cartografo di via Colarich – un altro che, avendo presente le mie prestazioni, si sente in dovere di fare il possibile per mettermi in condizioni di uscire dal bosco), e le rassicurazioni di Mrs. Marshall (la ragazza con un amplificatore al posto delle corde vocali), infatti, io questa gara la faccio male di merda come poche ne ricordo, male di merda al punto che la devo finire perché non sono neanche in grado di ritirarmi.

Seguita a ruota dall’omino che ritira le lanterne, punzono il finish sotto gli occhi delle due piccole vedette lombarde, la più piccola delle quali morta di fame e incarognita di conseguenza. Egli si scusa per il suo fare sbrigativo e spiega che è dovuto all’appetito, io sono ammirata del suo contegno perché so che quando ho fame (cioè quasi mai, considerando che mangio al minimo sospetto di appetito futuro) divento una iena.
Comprendendo l’emergenza come nessun altro, non pongo tempo in mezzo, e partiamo alla volta del cibo.

Immagino un’allegra bisboccia in una bella gostilna nei dintorni, ma in mia assenza è stato deliberato che non si mangia fuori, perché non c’è Zzi.
A me non è chiarissimo perché dobbiamo aspettare l’anoressico per andare a mangiar fuori, quando quella da ribotta sono io e sono qua in carne e carne, ma non mi oppongo, così imparo a stare tanto in gara e a non essere presente in momenti cruciali come la formulazione del piano-pranzo.

Tanto, io sono piena di piani-pranzo. Sono la regina dei piani-pranzo, ne ho sempre tre o quattro, il problema, di solito, è farmene attuare uno solo.

Sebbene titubante, CP accondiscende alla mia richiesta e lascia me e le piccole vedette lombarde al centro commerciale Montedoro, probabilmente il posto più squallido della galassia, ma vicino e fornito di un all-you-can-eat.
Un po’ mi scazza andare a mangiare plastica in un all-you-can-eat quando i dintorni sono punteggiati di squisite ed economiche trattorie, ma io non ne conosco una, la ricerca potrebbe andare per le lunghe, CP torna in città, ma la città è troppo lontana per i nostri stomaci. L’all-you-can-eat è la soluzione con il miglior rapporto costi/benefici.

Peccato che al Montedoro non ci sia alcun all-you-can-eat.
Ero sicura che ci fosse, ma evidentemente ho capito male la pubblicità alla radio; oppure c’era e non c’è più; oppure è questo che stiamo guardando, ma propone la formula all-you-can-eat solo in determinate occasioni, e mi è sfuggita l’informazione.
Sia come sia, quello che volevamo non c’è e quello che c’è non lo vogliamo: è costoso, non propone nulla che ci invogli ed è deserto, in un centro commerciale deserto, in mezzo al deserto.
Il personale – del fast food come degli altri esercizi – ci guarda famelico. Dobbiamo essere i primi clienti potenziali dall’inizio dell’anno. Mi sembra di stare in un film di zombie, ho paura che da un momento all’altro inizino ad inseguirci per spolparci, non necessariamente in senso metaforico.

Stringo il nodo alla felpa annodata in vita con cui copro i cinque centimetri di squarcio sul culo, tiro gli spallacci dello zaino per farlo meglio aderire alla schiena e porto i miei ragazzi fuori il prima possibile, giusto in tempo per saltare sull’autobus che passa nell’istante in cui riemergiamo alla luce del giorno.

È l’una passata, l’autobus fa tutte le fermate e impieghiamo un’eternità per arrivare a Trieste.
Io cerco di buttarla sul turistico, mostrando ai miei amici i luoghi di interesse che incontriamo: la sede della Illy, la zona industriale, i cimiteri, lo stadio… mi spremo le meningi per farmi venire in mente un posto dove mangiare prima di arrivare in centro, ma non so se i pochi che mi sovvengono siano aperti e non mi arrischio a scendere dal bus. Rem è nero di fame. Lo Speaker è in fin di vita. Il tempo che “la 20” impiega a raggiungere piazza Oberdan mi sembra superiore a quello che ho trascorso in gara, e forse lo è.

Piazza Oberdan, nel centro di Trieste, è un ottimo posto per andare alla ricerca di cibo: nei pressi ci sono una birreria, un cinese, un bar con ottimi dolci, una pizza al taglio, un minuscolo, ma pulitissimo, kebabbaro e svariati baretti. E c’è la pizzeria presso la quale Zzi e io ci forniamo a domeniche alterne. “Venite, andiamo qua!” esclamo trionfante come se avessi scoperto il vaccino per l’HIV “Fanno una pizza buonissima, noi la prendiamo qua quasi tutte le domeniche, è ottima!”.
Controlliamo l’orario sulla porta; chiude fra mezz’ora, quindi rem, che oramai ha fiutato l’odore della preda e non si ferma davanti a niente, punta secco il bancone e verifica che sia ancora possibile mangiare. Riceve conferma e ci accomodiamo, rilassati.
Tutto è bene quel che finisce bene.

“Per me una birra media e una pizza capricciosa, per favore”, dico alla cameriera non appena viene a prendere l’ordinazione.
“Un attimo”. E se ne va.
Come sarebbe a dire “un attimo”? In che senso? Non t’ho chiesto tartara di ermellino con vellutata di ciliegie alaskane al profumo di spezie norvegesi, ragion per cui vai giustamente a controllare che, vista l’ora, ci siano ancora gli ingredienti per servire la pietanza richiesta. T’ho chiesto pizza in pizzeria, che problema c’è?
“Abbiamo finito la pasta della pizza, possiamo servire solo i piatti della cucina”.
Rem – che a questo punto è una specie di gremlin a rovescio e si è trasformato in un demonietto per la fame – ha la prontezza di portare subito lo sguardo sul menu, così incenerisce quello e parte del tavolo anziché me e la cameriera.

Io, per punirmi, ordino bresaola e grana; i maschietti si sedano con due pastasciutte buone, ma non memorabili: le orecchiette di rem sono cotte alla cazzo di cane, come è ontologico per le orecchiette, gli gnocchi al gorgonzola dello Speaker hanno una puzza che uccide, ma tanto lui non sente niente, oppure è il loro pregio.

Recupero leggermente portandoli a mangiare il gelato da Zampolli in via Ghega (aka Zampega), poi, finalmente, possiamo stramazzare a casa: chi sul letto, chi sul divano, chi sul tatami di ferro.

L’esito della mia gara è minuziosamente raccontato su larryetsitalia.net e nella parte conclusiva del podcast, che potete ascoltare e scaricare da qui o dalla mia pagina iTunes.

One thought on “Lipica Open 2014 [5] – lunedì 10 marzo

  1. Pillow

    è la giusta punizione per aver ordinato i primi dopo cotanta premessa: che primi di merda siano!
    e capisco in pieno il tuo punirti con macrobiotica pietanza. anche io, davanti a troppa scelta, o troppo tempo intercorso tra il primo brontolio della fame e l’effettivo approdo al desco, autosciopero e ordino il nulla montato a neve.
    tra l’altro, è da domenica che vivo piegata come una sdraio causa pessimo lievito della solita pizzeria, che appunto, per assurgere al ruolo di solita, non ha lievito di merda.
    la punizione… mi fa male ogni curva del colon, sembro una vacca indù e vivo di yogurt e riso bollito.
    ieri sera, in un impeto di audacia, c’ho schiaffato dentro una mezza cucchiaiata di semi oleosi. limortacciloro e quasi pure li mia.

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