L’unica volta che vidi Parigi (6)

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Proseguiamo, allora, la nostra visita alla capitale francese dirigendoci eroicamente a piedi verso Champs Elysées, che a giudicare dalla carta sulla guida non sono troppo distanti.

Ecco un consiglio che mi sovviene di darvi: non fidatevi delle carte Lonely Planet, cambiano scala.

Sulle guide in quanto tali non ho niente da ridire, noi giriamo con quelle e ci siamo sempre trovati bene, ma le cartine sono un flagello, il che – forse – non è un dettaglio troppo trascurabile per uno che vuole usarle per viaggiare e visitare una città.
Non sono sbagliate, semplicemente cambiano scala dal centro della pagina ai margini, e verso i bordi diventano approssimative.
“Non è possibile” – diranno subito i miei piccoli lettori, memori delle mie abilità orientistiche – “Sei tu che non sai leggere le carte”.
Può darsi che io non sia un fenomeno in lettura, ma quelle carte sono sbilenche, non l’ho riscontrato solo io.

Al termine di un viale sterminato, frequentato come via XX Settembre a Genova sotto Natale, su cui si affacciano – come in via Venti – le vetrine dei soliti marchi, e in cui occorre prestare attenzione a gente che mangia e ti sporca, fuma e ti brucia, scippa e ti deruba, giungiamo sotto l’Arco di Trionfo.

In pratica, se da piazza della Vittoria fossimo andati verso il Ponte Monumentale (o viceversa, ora che ci penso), l’esperienza sarebbe stata analoga, ma avremmo fatto molta meno strada. Certo, a Genova non abbiamo il palazzo di Vuitton con il logo a bassorilievo su tutta la facciata, e ci patiamo, eh, belin se ci patiamo

Grazie al nostro formidabile pass, possiamo accedere all’Arco tutte le volte che vogliamo.
Grazie al cazzo, il pass costa sessanta euro, ci mancherebbe altro che non mi facessero accedere più di una volta. Saliamo i numerosi gradini.
A differenza di molti monumenti su cui siamo saliti e sui quali mi sono praticamente cagata in mano per via delle scale, qui si sale da una parte e si scende dall’altra, perciò non c’è pericolo di incontrare persone che si dirigono nel senso opposto, costringendo a spericolati equilibrismi sui gradini a picco sul baratro.

Inoltre, particolare non trascurabile, non c’è il baratro.
La “chiocciola” della scala è molto stretta e, anche se per quelli come me non mancherebbero le occasioni di cadere di testa per ventri metri spalmando il poco cervello su tutti i gradini, la mano sinistra può seguire il muro e la destra appoggiarsi al perno centrale. Nel giro di una decina di gradini si avrà contratto una dozzina di malattie, ma volete mettere la sensazione di sicurezza?

Prima di accedere alla terrazza c’è una sala con dei modellini dell’arco, manipolando i quali vengono proiettate sul muro le spiegazioni di cosa rappresentino i vari bassorilievi che lo adornano. Presa dalla foga del turista che deve arrivare per primo – non si capisce dove e perché, dato che c’è posto per tutti, si può restare quanto si vuole e il panorama non si consuma – all’andata li snobbo e mi involo sulla terrazza. Sono all’inizio del viaggio e sono ancora in gran forma: i gradini, sebbene numerosi, hanno fatto fresco alle mie allenate gambe.

La scaletta per la terrazza, ripida, malferma e con tanto spazio vuoto dai lati, per quanto bassa, fa scemare immediatamente la mia spavalderia e poco ci manca che mi debbano rianimare al termine di quei sette o otto gradini.

La terrazza, però, è Larry-friendly: c’è un parapetto altissimo con tanto di sbarre e non fa per niente paura, non come quei monumenti costruiti a uso dei suicidi, con il parapetto che arriva sì e no alle ginocchia, sui quali mi cago sotto e sto spalmata alla parete interna come un geco, perché di solito c’è anche un vento fortissimo che mi fa temere – leggera come sono – di volare di sotto.

Faccio un sacco di foto da tutti i lati, tutte insignificanti come solo le foto-ricordo di chi non sa e non capisce un cazzo di fotografia sanno essere.
Quando, invece, cerco di dare un senso ai miei scatti mettendoci anche Zzi, faccio comunque foto brutte perché o taglio i piedi o prendo un palo o il soggetto è controsole. Tre quarti buoni delle mie foto sono controsole, o perché immortalano un monumento e lo stiamo visitando all’orario sbagliato o perché ritraggono una persona e non ho cuore di farla stare con il sole in faccia.

Mio papà amava fotografarci (il complemento oggetto è “me e mia madre”) e per farlo come si deve, giacché lui, per mia disgrazia, di fotografia ci capiva, ci teneva immobili col sole in faccia per un tempo che a me pareva eterno – sia detto anche che mio papà non era la persona più sbrigativa il cui piè mortale abbia calpestato la cruenta polvere di questa terra muta – e, di conseguenza, assumevamo sempre espressioni poco felici.

Mia madre è una persona infinitamente stoica e orgogliosa e puoi farla marciare nel deserto con uno zaino di trenta chili senza darle da bere per giorni e non udrai un lamento, perciò se mio padre diceva “mettetevi là” e “là” era sotto un riflettore da stadio che neanche negli interrogatori della CIA, là mia madre stava con la sua migliore espressione stampata in volto per il tempo necessario, anzi, tardava sempre qualche istante a rompere le righe, penso per dimostrare (immagino a me, figlia smidollata) che non le era di alcun disagio stare in posa.

Io, al contrario, sono sempre stata di tempra assai più tenera, diciamo pure di nessuna tempra, e venivo con gli occhi chiusi, con la bocca storta o con le sopracciglia aggrottate, ma più spesso tutte queste cose insieme. Il più delle volte mio padre, anche se ci guardava attraverso il mirino a decine di metri di distanza, se ne accorgeva, e non scattava finché non avevo rimesso i lineamenti come li voleva lui, cioè come li avevo di solito.
Io mi sforzavo, e più mi sforzavo e più mi si deformava la faccia.

Qualche volta, però, non se ne accorgeva finché le foto non venivano sviluppate, e non era contento del risultato, però non me lo rinfacciava. Siccome la mia faccia da poker l’ho presa da lui, perfino io mi accorgevo che ci pativa ad avere la figlia brutta nelle foto (del fatto che ce l’aveva brutta anche dal vivo non si è mai accorto).
Non era un grosso problema, in fondo, perché tanto non le riguardava mai. Non perché non fosse soddisfatto del risultato, ma perché le aveva messe via bene e riteneva che fosse un peccato maneggiarle, tant’è che l’ultima volta che l’ho visto mi ha sgridata perché non giravo con sufficiente cura le pagine di un album; l’avvento del digitale, in relazione alla goffaggine di sua figlia e alle di lei perennemente sudaticce mani, era stato un grande sollievo.

About Larry

Un giorno Bruce Springsteen mi porterà via con sé, nel frattempo vivo avventure rocambolesche ogni volta che mi avvicino a un fornello e sottopongo ad attenta analisi tutti i locali nei quali vado a mangiare. Una volta ho incontrato un orientista e l'ho sposato senza comprendere la portata della tragedia. Il lamento dell'orientamento è su Larryetsitalia.net

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