Prefazione
Quest’anno non esordisco con gli auguri, perché l’ultima volta che l’ho fatto era il 2020, e guarda come siamo finiti. Io non sono superstiziosa, ma manco fascista.
Appuntamento al buio: VeNotte 2025
Febbraio è il mese dell’ammmòre, e io lo inizio, appunto, con un appuntamento al buio: la VeNotte senza frontale, come è ormai tradizione.
Quest’anno Zzi e io abbiamo delle nuove vittime, rimorchiate nel giro di bevandele – pardon – appassionati di vino, che la nostra non più giovane attività ci ha fatto incontrare in questi anni.
Ora la mia filosofia è che, se proprio non riesco a evitare del tutto l’orienteering, qualcuno deve soffrire con me.
È come quando il vigile si attacca a un nonnulla per farti la multa, perché quella mattina ha scoperto di avere le corna: sono incazzata perché faccio orienteering e me la prendo col primo che passa, nella fattispecie due rispettabili bancari triestini.
Non solo orienteering
Partiamo con calma col regionale delle 12.16, sul quale io mi cimento nel mio nuovo hobby: la maglia, che mi dà più o meno le stesse soddisfazioni dello sport, ma almeno non sudo.
Recentemente ho ultimato il mio primo maglione.
Ho impiegato quasi un anno a farlo, ma devo ammettere che è valsa la pena disfarlo qualche volta per guadagnare in precisione; specie togliere la terza manica gli ha dato un tocco perfezionista che non pensavo lo migliorasse tanto.
Nulla al caso
L’equipaggiamento è completo, ma essenziale: indumenti da gara, accessori specialistici, che naturalmente includono una lampada frontale completa di batterie, che ho avuto l’accortezza di provare la mattina stessa della gara, biancheria asciutta per il dopo-gara; abbigliamento comodo per spogliarsi su una gamba sola e scarpe da gara già ai piedi.
E assorbenti, naturalmente, perché le mie ovaie si coordinano perfettamente col Galilei e ad ogni gara a Venezia – notturna invernale, notturna estiva o compianto MOV che sia – io ho le mestruazioni. E ora che sono una W45, della sola capacità di aderenza della coppetta, non mi posso fidare più.
Nei giorni precedenti, alcune app meteo paventavano pioggia, ma noi siamo stati molto accorti ad affidarci solo alle più ottimiste, perciò manca poco che parta col cappello di paglia; attorno alle sedici, quando viene giù anche San Pietro, rimpiango a una a una le calzature che ho lasciato all’asciutto della scarpiera, in particolare quelle cazzo di Saucony di Goretex nere, che scaldano come due altiforni, pesano come due incudini e che non mi metto mai (perché scaldano come due altiforni, pesano come due incudini e sono nere), e che ora sarebbero servite, per la prima volta da quando le possiedo.
Lancio un fugace pensiero anche alle lenti a contatto, ma le rimpiango assai meno, consapevole che il fastidio di una lenticchia in un occhio supererebbe il beneficio di non avere gli occhiali appannati.
E poi ora ho un formidabile cordoncino che mi tiene gli occhiali perfettamente aderenti al viso, comfort e visibilità sono perfetti.
Il tallone d’Achille e i piedi senza più dita
Al centro gara, il mio ego viene pesantemente dopato da un’atleta della Punto K che afferma di riconoscermi. Dalla voce. È chiaro che è una strategia delle avversarie – che mi temono tantissimo, evidentemente – per distrarmi e non permettermi di concentrarmi durante la gara. Funziona benissimo, oltretutto. Lo dico a beneficio della Punto K e altre società che l’anno prossimo volessero eventualmente sabotarmi: funziona.
Ringalluzzita, mi avvio acchittata di tutto punto alla partenza; Zzi e i nostri amici spariscono all’orizzonte al minuto zero, io e il mio ego ci remeniamo in zona partenza per venticinque minuti.
Il primo febbraio a Venezia alle sette di sera, dopo la pioggia e con un po’ di vento, ti si ghiacciano i sentimenti anche se ad averti riconosciuta dalla voce fosse stato Springsteen.
Mi piego al riscaldamento.
Non devo correre molto forte, perché una signora mi ferma per chiedermi se siamo in zona Santa Marta. Ci saranno sì e no trenta persone, su quel tratto di strada, che corricchiano su e giù; metà di esse ha la metà dei miei anni o meno, cioè è potenzialmente meglio informata di me sulle università veneziane, ma no, la signora sceglie me, proprio me, quella che, evidentemente, sta andando più piano degli altri ed è più facile da intercettare.
Mi intercetta anche Pedrotti, che a mia volta riconosco dalla voce, perché sul comfort del marchingegno per gli occhiali ci siamo alla grande, ma sulla visibilità ci sono margini di miglioramento; e sì che non era proprio un soggetto facile da confondere, ma cerco di non perdermi d’animo.
La gara
Finalmente, arriva la mia ora e attraverso i cancelli.
Prudentemente, al minuto -2 faccio partire il GPS, così è una cosa in meno a cui pensare alla partenza.
Accortamente, al minuto -1 accendo la frontale, così sarò prontissima alla partenza.
Ho le mani talmente gelate che non riesco a premere a fondo il pulsante di accensione, viene solo la luce rossa di emergenza. Riprovo, ma niente. Mi faccio aiutare dal responsabile di partenza, mentre l’ultimo minuto trascorre veloce e partono tutti tranne io. Neppure il responsabile ce la fa, e mi risolvo a fare la gara con la lucina rossa, che è meglio di niente.
Impiego un po’ a trovare partenza e punto 1, nonostante sapessi della ripartizione della gara su due sezioni di carta.
Quello che scopro subito, invece, è che la luce rossa della frontale praticamente annulla il tracciato magenta sulla carta. Sotto i lampioni, ancora ancora si indovina qualcosa, ma al buio è come guardare una cartina in bianco e nero, col contrasto molto basso, per giunta.
Accosto presso una scala antincendio coi gradini alla mia altezza e appoggio bussola, si card e cartina, e mi tolgo marchingegno degli occhiali e frontale, decisa ad accenderla.
Niente, è scarica.
Non sono ibernata io (cioè, lo sono, ma non è rilevante), non è stato inaccurato il giudice di gara, non c’è un tastino nascosto: le pile sono scariche.
Le pile sono scariche, non c’è un tabacchino nei paraggi e, anche se ci fosse, io non ho soldi.
Mi rimetto tutto addosso, tranne la frontale, che terrò nell’incavo del gomito destro per tutta la gara, come una borsetta, e finalmente parto per la mia VeNotte 2025, la seconda di seguito, per me, senza frontale.
Inizia un’agonia di lettura di lampione in lampione, di orientista in orientista, cercando di ladrare la luce dalle frontali degli altri.
Il paesaggio della prima porzione di gara me lo permette abbastanza agevolmente e completo in qualche modo le prime otto lanterne.
Via di qua, ci s’avventura nel vero ventre di Venezia, dove il buio non fa sconti (musica grave e solenne).
Ma ecco, tra la 8 e 9, il plot twist, che una volta si chiamava colpo di scena, e invece è un colossale, clamoroso colpo di culo, quella coincidenza impossibile che preferiresti ti capitasse all’Enalotto, ma invece ti capita mentre fai orienteering, perché la fortuna è come l’adipe: va dove non serve.
I baldi bancari hanno terminato la loro gara, stanno tornando al centro gara, non occorre più loro alcuna lampada e ne hanno perfino una frontale, che mi prestano.
Musica di quando Indiana Jones si rimette il cappello.
Dalla 9 in poi, se eccettuiamo il fatto che ho zampettato due minuti nella stessa piazzetta perché tra l’incontro e la sistemazione della frontale ho girato la carta e non riuscivo a riposizionarmi, faccio la gara della vita.
Mancano quindici lanterne, ma il racconto finisce qua, perché non fa più ridere.
Altro che Indiana Jones, con una luce bianca sulla testa mi sento come Braccio di Ferro che ha mangiato gli spinaci: penso di poter sbaragliare qualsiasi avversario, di poter affrontare qualunque prova, ora che ho il superpotere di una vista approssimativa, sento che non può andare storto più niente. Ci credo talmente che mi dimentico di non saper fare orienteering e vado.
Vedo dove andare, decido come andarci e ci vado, per quindici volte.
Vado e basta. Senza cristonare, senza lamentarmi di tutto, senza meditare atroci vendette contro mio marito, non rompo i coglioni e vado.
Ok, una volta faccio un ponte di troppo e devo tornare indietro, ma me ne accorgo subito; un’altra volta faccio la scelta lunga perché non vedo bene che ce n’è una più corta, ma non combino di peggio.
Vedo dove andare, decido come andarci, non rompo i coglioni e ci vado, perfino presto, per le mie capacità.
Una monotonia che vi risparmio.
Chiosa moraleggiante
Grazie a una punzonatura mancante altrui, chiudo terzultima, che è uno dei miei migliori piazzamenti (dopo il podio alla Lipica Open, naturalmente), è mooolto più di quanto mi aspettassi (non ero sicurissima di stare nel tempo massimo, neanche quando pensavo che la mia frontale facesse luce) e col sospetto che, se avessi cominciato da subito a vedere dove andare e ad andarci, forse i dodici minuti dalla quartultima li avrei risparmiati.
Dodici minuti sono un’eternità, ma se mi decidessi anche a fare fatica in gara, anziché arrivare alla fine con un sacco di fiato per chiacchierare e neanche troppo spettinata, forse potrei addirittura ambire alla zona salvezza. O almeno abituarmi a non rompere i coglioni.
Ma quanto ci è mancato un aggiornamento dal blog Larrycette?
Talmente tanto che a tratti ci pare di amare l’orienteering, ma non abbastanza per provarlo, per fortuna!
😍
toh, è risorta
E Antonio Salieri piangeva. Perché la sorte gli aveva riservato quel po’ di talento che gli era sufficiente per capire quanto fosse smisurata la grandezza di Mozart, ma insufficiente per poter anche solo immaginare di poter, un giorno, raggiungere le stesse vette di Mozart
Sappiamo tutti che, ai tempi di Mozart, Salieri era una specie di rockstar e, per quanto ammirato del più giovane asburgico, non aveva di che temere né per la sua fama né per la sua (straordinaria) capacità.
from lat. manus – “hand” and scribo – “I write”) [1]