Seconda cena regionale: il Piemonte. Antipasto: Tartrà (2)

Accantonata, per le ragioni precedentemente esposte, la bagna caoda, occorre trovare un altro antipasto tipico per iniziare la cena piemontese.
Va da sé che non deve recare le caratteristiche che ci hanno fatto escludere la bagna caoda, quindi niente peperoni con aglio e acciughe (straziante rinuncia) o preparazioni analoghe.

Sfogliando il ricettario, scopro quella che ha l’aria di essere la mia nuova pietanza preferita (almeno per i prossimi quindici minuti): la tartrà.

La Tartarà in 7 mosse

Cos’è e come si prepara (in teoria).

Con una definizione semplicistica grazie alla quale attirerò le ire di mezzo Piemonte (perché l’altro mezzo non mi legge), la tartrà è una frittata montata con la panna; o un budino salato con l’uovo, dipende dai punti di vista.
Non è difficile da preparare, basta avere qualche attenzione in più di quelle che ho avuto io, e non richiede neppure troppo tempo.

Fondamentalmente si sbattono in una ciotola uova, cipolla precedentemente appassita, parmigiano grattugiato, odori, spezie e panna fresca. Quindi si mette il composto (che a  causa della presenza della panna è un liquido appena più denso del latte) a cuocere in forno in stampini singoli, meglio se a bagnomaria.
Dopo circa tre quarti d’ora, i “budini” sono cotti (si può fare la prova dello stecchino) e, dopo qualche minuto di raffreddamento, possono essere sfornati.

Non è mica difficile, no?

Come io ho fatto la tartrà (in 7 mosse)

Mossa #1: “in una ciotola, unire le uova, la panna, la cipolla già appassita e il parmigiano”.

Partiamo bene: non ho cipolla. Cioè: ce l’ho, ma non ho cazzi di usarla, perché ho mezzo buonissimo porro appena affettato che sarebbe un delitto dimenticare in frigo, quindi decido di usarlo nella tartrà.
Oltretutto, per me la cipolla sta al porro come gli U2 stanno a Springsteen: la apprezzo  (e in certi momenti pure parecchio), ma esserne fan è un’altra cosa.

Nella foto il porro non si vede perché va a fondo.

Mossa #2: “insaporire il tutto con odori e spezie”.

Va beh, bastava dire di sbattere insieme tutti gli ingredienti, non è che faccia differenza il loro ordine, in questo caso.

Poi, però, mescolando, si vede che è vero che ci ho messo il porro!

Mossa #3: “versare il composto negli stampi”

Sottotitolo: chi è causa del suo mal… (dia la colpa al primo che passa).

Una qualsiasi persona sana di mente non userebbe stampi in silicone per una preparazione liquida.
Una qualsiasi persona sana di mente, a ben vedere, non userebbe stampi in silicone per nulla al mondo.

Non potendomi permettere di farmi le tette, in passato ho sublimato il mio desiderio di silicone mettendo in lista nozze due stampi. Di uno non sono psicologicamente pronta a parlare, l’altro è uno stampo per budini.
Ora, riconosco di essere scema ad aver voluto uno stampo in silicone per budini, che è come dire “una forchetta per il brodo”, ma invoco l’attenuante della fiducia nel prossimo: se un ingegnere l’ha progettato e un’industria lo ha prodotto – ho pensato – in qualche modo funzionerà. Ho capito dopo che era stato inventato da un teologo, perché devi avere tantissima fede e nessuna conoscenza della fisica per credere che funzioni.
Resta il fatto che ci volevo io a farmi coglionare così.

Avrete notato che l’infame stampo è posato sul tavolo. La tartrà, però, va cotta preferibilmente a bagnomaria, quindi bisogna ancora trasferire il tutto in una teglia contenente acqua.
La manovra è letteralmente impossibile. O, meglio, è possibile, ma non bisogna poi pretendere che resti del composto nello stampo.
Ho risolto così: ho maledetto le mie scarse intelligenza e lungimiranza, ho svuotato nuovamente il contenuto dello stampo nella ciotola (che per fortuna ha la portata d’acqua dell’Ontario), ho disposto lo stampo nella teglia, ho nuovamente riempito lo stampo con il composto e ho aggiunto acqua – già un po’ calda – nella teglia fino al livello di sicurezza (altrimenti, se avessi aggiunto dopo lo stampo e/o il composto, l’acqua sarebbe certamente tracimata).

L’operazione non è indolore, ma sostanzialmente funziona.

Mossa #4: la cottura

Beh, qui non c’è molto da fare.
Se siete religiosi, però, la fede vi sarà di conforto, perché per metà del tempo di cottura non succede praticamente un cazzo, salvo che le patacchine sul bordo dello stampo si bruciano, facendo presagire la tragedia.
Poi, senza preavviso, la tartrà comincia a rapprendersi e si assiste a quello che non stenterei a definire “il miracolo della cottura”, durante il quale il composto addirittura si gonfia.

Se riuscite a vedere qualcosa attraverso la sporcizia del vetro del mio forno, noterete che si sono formate come delle invitanti ciambelline.
È tremendamente presto per anche solo pensare di aprire lo sportello, quindi… giù gli stecchi!

Passaggio #5: l’estrazione dal forno

Ora che la tartrà ha raggiunto lo stato solido (è un modo di dire, gli ingegneri si mordano le loro due lingue a riguardo), spostare il catafalco è più semplice, ma non più sicuro: c’è sempre dell’acqua rovente in giro.
Soprattutto, non è affatto sicuro rimuovere lo stampo dalla teglia, poiché è evaporata pochissima acqua, ed essa lambisce ancora il bordo dello stampo.
Individuo con lo sguardo il punto migliore per attaccare, avvicino con un movimento fluido e calibrato le dita ai bordi dello stampo, accosto lentamente e con attenzione le falangi al… plotsch.
UAAAAH!!! Come bruciaaah!
Belin, meno male che non faccio l’artificiere.

Nota bene: rivedere il concetto di “livello di sicurezza dell’acqua” (cfr. passaggio #3).

Le macchie sul vetro del forno ci hanno fino ad ora impedito di notare che alcune tartrà (plurale tartrè? Tarquattro?) si sono un po’ annerite; sarebbe stato meglio girare la teglia nel forno, o forse si poteva coprire il tutto con l’alluminio. Ad ogni modo, era meno grave di come appare nella foto, ho numerosi testimoni.

Passaggio #6: l’estrazione dallo stampo.

Se per l’estrazione dello stampo dalla teglia ci voleva un artificiere, per estrarre la tartrà dal suo stesso stampo (quando esso è di silicone) ci vuole un prestigiatore.

Ho capovolto lo stampo sul tavolo e ne ho sollevato i bordi molto lentamente, contemporaneamente da entrambi i lati, in modo che la trazione necessaria a estrarre la tartrà da una parte non rovinasse le tartrà dall’altra.
… Suspense…
E fallimento!

Mi sa che ho dichiarato terminata la cottura troppo presto: la struttura è altamente instabile e si piscia addosso.

Noterete, infatti, l’acquetta che cola da uno degli esemplari meglio riusciti.
L’acquetta è una delle peggiori disgrazie che mi vengano in mente, limitatamente a quanto accade tra i fornelli. Io la vivo non come un fenomeno fisico, che si manifesta in conseguenza di determinati procedimenti (evidentemente errati, o corretti, ma in condizioni inadeguate). Per me, l’acquetta è una maledizione divina, è una cosa che non si sa mai perché e quando capita; tipo attacco epilettico: ad minchiam.

Passaggio #7: il trasferimento nel piatto.

Questo è un segreto. Non posso rivelarvi come si fa a spostare le delicatissime tartrà dal tavolo al piatto senza danneggiarle più di quanto già non siano.
Posso solo dirvi che è una specie di magia, e come tutte le magie funziona solo se il pubblico ha gli occhi chiusi, o è in un’altra stanza.

Non sempre la magia funziona, ma per fortuna eravamo giusto in cinque a tavola e nessuno è rimasto senza.

So che state pensando che, in caso di insufficienza di porzioni, gli ospiti avrebbero fatto a gara pur di rinunciare, eppure – ammetto che è difficile a credersi – le tartrà erano buonissime.
“Grazie al cazzo” – diranno subito i miei piccoli lettori – “Con uova, panna, parmigiano e porro è molto difficile cucinare qualcosa di cattivo”.
Vero, eppure anche la consistenza era, nonostante tutto, gradevole, tanto che sono propensa a replicare l’esperimento, magari lasciando cuocere un po’ di più la preparazione.

Prima, però, faccio un giro su Amazon a comprare degli altri stampi.

8 thoughts on “Seconda cena regionale: il Piemonte. Antipasto: Tartrà (2)

  1. Otti

    io voglio gli stampi che funzionano! Posso averli, Giulio? Li dai alla Larry che li tiro su il prossimo week end!? Quelli della Larry non funzionano, fanno acqua da tutte le parti! E io sono stufa di comprare quelli brutti usa e getta in alluminio!

  2. Larry Post author

    Gli stampi sono come le borsette, gli anelli e gli orologi: sono oggetti molto personali, non possono essere prestati. Recano il vissuto del loro padrone e anche se potenzialmente potrebbero essere usati da chiunque perché non hanno una taglia, non possono passare di mano come un cellulare o un computer qualsiasi.

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