Trattoria ai Fiori, piazza Hortis 7, Trieste

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Prendo spunto da un recente scambio di battute su Twitter con @emilioguazzone per fare una resoconto un po’ più approfondito della mia recente esperienza alla Trattoria ai Fiori (Trieste)… hai visto mai che riesca ad essere attuale e di una vaga utilità per qualcuno.

Il 24 dicembre u.s., Zzi e io ci siamo incontrati in città per un romantico pranzetto, per festeggiare il nostro semi-anniversario.
Fosse per me, festeggerei tutti i giorni la nostra unione, brindando e gustando manicaretti; fosse per Zzi, anche, ma non necessariamente pasteggiando. In quasi dieci anni (“Dieci aaanniiii???” – diranno subito i miei Piccoli Lettori – “Mmminchia!”… Ecco, non avrei saputo dirlo meglio) siamo giunti a stipulare questo patto: “bacini d’amore tutti i giorni, baci di dama [o similia] ogni sei mesi”.
È così che, il 24 dicembre, mentre tutti si affannano per cenoni e regali di Natale, noi camminiamo trasognati e ci concediamo un piccolo lusso gastronomico in locali generalmente deserti.

Quest’anno abbiamo deciso di andare a gustare un panino di pastrami e una buona birra Gastaldia da Zoe Food, dove è parecchio che non metto piede, da quando non lavoro più da quelle parti.

… ma Zoe era chiuso per ferie.

Allora, siamo andati alla nuova pizzeria Celestino, un locale ai confini della realtà, di proprietà dell’ex-proprietario (o ex-gestore… insomma, di uno che ci lavorava nel 2005, lo so perché l’ho riconosciuto) dei Tre Merli. Il concept alla base di questo spazio per vivere l’esperienza-pizza – e con questo ritengo di aver dato un’idea del tipo di locale –  è di tornare a fare solo pizze, ma di qualità sopraffina, con ingredienti selezionatissimi e accostamenti sofisticati; risultato: una pizza, sedici euro.
Personalmente non sono del tutto contraria all’operazione. Certo, cacciare sedici euro per una pizza mi fa un po’ specie, ma considerando i costi delle materie prime e l’arredo upper-class del locale, mi rendo conto di non poter pretendere molto di meno. Ci sono stata con CP e ne sono uscita piuttosto soddisfatta, quindi, consapevole di ciò cui stiamo andando incontro, ci porto Zzi, affinché anch’egli possa gustare una capricciosa vere olive taggiasche [qua parte “Ma se ghe penso”].
Demmo ûna miä into o porton serrou e se n’annemmo.
Primo buon proposito del 2014: tornarci con Zzi e parlarvene.

Ripieghiamo, allora, sulla vicina trattoria Nero di Seppia, che ha sempre ottimo pesce pescato e una buona scelta di vini al bicchiere. Ne avevo parlato diffusamente anni fa e ci siamo tornati pochi mesi fa, constatando che la qualità era rimasta la stessa.
Constatato anche che pure questi ristoratori aderiscono al movimento triestino del “ara che xé festa anche per mi” (dal quale, peraltro, non riesco a dissentire del tutto), ci sovviene che sono mesi che vogliamo andare a provare la Trattoria ai Fiori, sempre nei dintorni della Fu Edicola.

Stupefatti dal trovarla aperta, ci precipitiamo dentro prima che chiuda!

Trattoria ai Fiori, piazza Hortis 7, Trieste

Non è la prima volta che io pranzo qui: un paio d’anni or sono c’ero stata con la mia amica Capo e un nostro caro conoscente (ora non sto a spiegarvi chi sia Capo, perché la chiami così e cosa ci facessimo là: accettate il fatto che ho un’identità – tutto sommato rispettabile – fuori da questo blog).

All’epoca il ristorante era dei suoi zii, ed eravamo stati trattati molto bene. Desideravo tornarci con Zzi, ma a furia di rimandare, il locale era stato rilevato dagli attuali proprietari.

Alla notizia del cambio di gestione, per qualche tempo ho perso l’entusiasmo, poi la curiosità ha avuto la meglio, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo “e il” ed è un miracolo che ci siamo ricordati di andarci lo scorso martedì.

Decisivo nel risolverci di scegliere questo ristorante – a proposito: si chiama “trattoria”, per via di un gusto tutto triestino per il depistaggio lessicale, ma è un vero e proprio ristorante, con apparecchiatura in stoffa e stuolo di posate a comporre il coperto -, oltre all’essere aperto, è stato il menu degustazione proposto a pranzo, che si compone di primo, secondo (entrambi di pesce), acqua e coperto alla ragionevole cifra di diciotto euro.

All’ingresso ripropongo la mia famosa quadriglia della porta, una coreografia che metto in scena ogni volta che ci sono due porte: mi incastro goffamente nello spazio fra di esse e impedisco il passaggio a chicchessia, bloccando di fatto l’entrata.
Dopo l’intervento dei pompieri, entriamo in una sala molto diversa da come la ricordavo.

I nuovi proprietari, infatti, hanno fatto una scelta estetica molto decisa e moderna, puntando sul fuchsia. Tutto l’arredo è bianco e in tinte neutre, con dettagli rosa acceso che farebbero impazzire la Giraffa; sono rosa le imbottiture delle sedie, le tende, i vasi delle piante, i montanti del paravento, le bordure sui muri e i ripiani dei tavoli, che i table-runner non coprono del tutto.
Il bicchiere da acqua è personalizzato e, oltre alla scritta “Ai Fiori” (o “Trattoria ai Fiori”, al momento non potrei giurare) reca tante piccole silouhette di foglie e fiori di ibisco rosa shocking.
Perfino l’acqua, apprezzerò poi, è di una marca la cui etichetta è rosa, e non riesce a sembrarmi una coincidenza.
Nonostante tutto, l’insieme è elegante… Eccentrico, sì, ma per nulla pacchiano.

Ci viene consegnata la carta e ci viene ricordato che possiamo prendere il menu degustazione di mezzogiorno, sul quale ci buttiamo con la distaccata nonchalance di quelli che volevano proprio quello, ma facevano i sofisticati.
Si noti che io sto facendo la sofisticata con le scarpe del 1999 che stanno insieme con lo sputo e due sacchetti della spesa, perché prima di incontrare Zzi sono passata in macelleria e da Antonio (il biospacciatore), quindi ho ciuffi di sedano che spuntano dalla borsa di plastica.
Certo, ho un delizioso berrettino di cachemire beige, ma è appallottolato in una tasca del montgomery e sembra che io giri con un ratto morto.
Ho anche una bottiglia di whisky in borsetta, che regalerò a Zzi a sera e che non posso farmi sgamare (anche per non passare da alcolista), quindi mi accatasto tutto sotto la sedia, come i barboni che hanno paura che gli vengano sottratte le loro poche, preziose cose.
È che me lo facevo un posto più alla buona; visto il menu, mi ero figurata che a pranzo ci fosse un’atmosfera più disinvolta.


Il cameriere è un tipo che ci sa fare: spinge il vino della casa.
Ora, se spingi il vino sfuso, i casi sono due: o non hai niente di aperto da dare a bicchiere e non ha intenzione di aprirlo, ma è improbabile, visto che il locale resterà aperto nelle feste e avrai tutte le occasioni per finire le bottiglie eventualmente aperte, o hai capito che non è il caso di spennarci, perché in un’occhiata ti è stato chiaro che sono una che fa la spesa alla bancarella, ma cui comunque piace mangiare, quindi, se non mi spenni subito, capace che “faccio musina” (triestino per “far biscioeta”, “riempire il salvadanaio”, “risparmiare”) e torno in grande stile.
Il vino sfuso è, per inciso, un tocai davvero buono.

Coperto: pane fatto in casa e un po’ di burro

Il cameriere è più di un tipo che ci sa fare.
È l’uomo che più mi capisce al mondo.
Dopo le bevande, porta il pane, che si compone di un cestino con tre tipi di pane (tutto bianco, pazienza, ce ne faremo una ragione) fatto in casa: una sorta di ciabatta con la crosta tenera e la mollica con molti alveoli, un pane con la mollica più fitta e la crosta più spessa e una libidinosissima focaccia con il pomodoro sopra, tutto tiepido. Con il burro accanto.

Ora, i miei Piccoli Lettori, sapientemente allevati, mi si ritorceranno contro come boomerang e diranno “Con il burro accanto” non è una proposizione, non può stare così, da sola, campata in aria, fra due punti fermi: non c’è il verbo.
Il Burro è il Verbo.
Il Burro può tutto, è onnipotente, esso è ciò che è. In principio era il Burro, poi il Burro vide che era cosa buona e disse “sia fatto Burro”.

Tragicamente, il cameriere lascia tutto questo ben di Dio a portata di Zzi e troppo distante da me, che mi sono anche murata viva con le borse e non mi posso sporgere, quindi dovrò elemosinare al mio consorte ogni singolo boccone.

 

Saluto della cucina: insalatina di ricciòla con sedano

Nei ristoranti più attenti è usanza portare, prima del primo piatto, un microassaggio di una qualche specialità, per far ingannare l’attesa.
Non mi stupisce, perciò, che un locale così curato e premuroso nel servizio abbia l’accortezza di servire questo stuzzichino, ma mi sorprende piacevolmente che questa piccola attenzione sia riservata anche a noi pezzenti, che abbiamo ordinato due menu fissi e un quartino di vino della casa.

 

Primo piatto: orecchiette con tonno sott’olio fatto in casa e pomodorini

Zzi e io scegliamo lo stesso primo piatto, poiché l’alternativa erano spaghetti con le vongole e le cozze, ed entrambi non siamo estimatori delle cozze. Io ne sono praticamente terrorizzata, a Zzi, semplicemente, non piacciono.
Da piccola ero ghiotta di vongole e ricordo il loro sapore come uno dei più squisiti, ma intorno ai sette anni mi sono resa conto che erano animaletti mostruosi anzichenò e non ne ho più voluto sapere. Forse è stato intorno agli otto anni, non sono mai stata particolarmente sveglia.
… e poi non so mangiare gli spaghetti, sono troppo lunghi, finisce che li faccio roteare sulla forchetta come la frusta di Indiana Jones, smerdando me e tutte le pareti.

Sono un po’ spaventata dal tonno, perché, come sapete, il tonno fresco mi uccide. Mi era accaduto a Brescia (allora davo la colpa al vino) e poi a Lubiana. È vero che il tonno sott’olio non mi ha mai dato problemi, ma per quel che ne so, quello fatto in casa è ugualmente letale; mi piace vivere pericolosamente.

Mentre gusto con incoscienza totale il primo piatto, sento gli occhi di Zzi che mi osservano come se stessi per trasformarmi in una specie di zombie viola, come un minion dopo l’iniezione.
Nonostante le orecchiette siano un tipo di pasta infame – perché non sono mai cotte tutte al punto giusto – il piatto è squisito. Il tonno sott’olio fatto in casa è buonissimo, per niente salato, compatto ma morbido e niente affatto unto.
A voler proprio fare un appunto al piatto, io avrei messo pomodori secchi, o – al limite – un po’ più cotti, perché il pomodorino fresco appena spadellato dà – sì – gradevoli acidità e freschezza al piatto, ma al tempo stesso lo annacqua un po’.

 

Secondo: filetti di branzino e di ricciola

Con la seconda portata, Zzi e io torniamo all’antico, ordinando pietanze diverse: filetto di branzino per me, di ricciola per Zzi.
Entrambi sono cotti al forno, oppure il mio branzino era ai ferri e la ricciola era al forno… ad ogni modo, si trattava di cotture  semplici, che non coprivano il gusto del pesce, eseguite come si deve, poiché le carni erano ben cotte, pur restando succulente (nei limiti di succulenza del pesce) e si staccavano perfettamente dalla pelle.
Di contorno, un po’ di radicchio in padella e fette di patate ben arrostite. Asciutte, croccanti fuori e morbide dentro. Non porche come quelle della cena dell’orientista, ma comunque delle signore patate.

 

Il pre-dessert: panna cotta al gianduia

Il cameriere è più di uno che ci sa fare.
Il cameriere è il mio nuovo migliore amico. Ciao CP, ciao Giraffa, ciao Elisa; ciao Da, ciao Ste, ciao Sa, ciao Lo; ciao orientisti, ciao fuciniani, ciao seguaci. Ciao a tutti.
Zzi, in campana!

Solo lui mi capisce veramente, solo lui mi vuole bene e pensa a cosa è meglio per me.

Dopo che abbiamo ordinato il dolce, infatti, il mio nuovo migliore amico ci porta il pre-dessert, che è la versione dolce del saluto dello chef; tipo “saluto del pasticcere”, per intenderci.
Io sono in lacrime.
Zzi, non sa dove nascondersi, e io sono in estasi religiosa.

Passerò il resto della giornata ad esultare “pre-dessert”, “pre-dessert”, “pre-dessert”.
Anche se glottologicamente fa cagare, “pre-dessert” è la mia nuova parola preferita.

 

Dessert

Cremoso al pistacchio con gelato allo yogurt di Zidarič con croccante di nocciole

O un nome del genere.
Ok, sui nomi dobbiamo lavorare, abbiamo un po’ il complesso del ristorante fighetto con nomi wertmulleriani, mancano solo gli articoli determinativi cagati ad minchiam  per rovinare tutto, ma il pre-dessert mi ha resa incredibilmente tollerante sotto l’aspetto linguistico.
Era molto buono.
Ora io non saprei bene dire che differenza ci fosse fra la consistenza della panna cotta al gianduia e la consistenza del cremoso, ma immagino ci siano procedure che rendono le preparazioni estremamente diverse. Il sapore era divino, pistacchioso senza ritegno.
Il gelato allo yogurt contine yogurt e poco altro, perché non è molto cremoso, ma il piccolo tortino di nocciola croccante su cui è collocato è argutamente tiepido e lo fa squagliare quanto basta.
Sono deliziata.

Zzi ha preso il

Flan di cioccolato Domori con gelato a caffè Illy.

Lo so, lo so… Una spocchia insopportabile (e una tostatura un po’ invadente, a mio gusto, il caffè Illy), ma vi ricordo che siamo a Trieste, Illy (e Domori di conseguenza) è una bandiera e un vanto, lo si ama a prescindere, come il tartufo ad Alba, come la regina in Inghilterra, come Maradona a Napoli.
Ha detto che era molto buono, io non ho neanche voluto assaggiare il flan tanto la Giraffa lo fa sicuramente meglio.
In realtà ho assaggiato una puntina del solo gelato al caffè, e jera bon de cagarse, per usare il gergo tecnico.

 

Caffè e cantucci

Quando i caffè macchiati (è un posto d’alto livello, si può ordinare il caffè come nel resto d’Italia senza timore) ci vengono serviti accompagnati da dei cantuccini, io sono là là per dichiararmi al cameriere, Zzi si lamenta per la quinta volta di essere sazio (ha cominciato a farlo quando hanno portato l’acqua).

 

Conto

Il conto è giusto, leggermente a nostro favore.
A un certo punto del pranzo, avevamo ordinato una seconda bottiglia d’acqua; io sapevo che il menu includeva anche acqua e coperto, ma ero sicura come di poche cose nella vita che una ce l’avrebbero messa in conto a parte, e così è stato.
Io chiedo “quante ‘acque’ ci sono nel conto?”; il mio nuovo migliore amico mi dice “una, una è inclusa nel menu”; “ok”, rispondo io, segretamente trionfante per averli sgamati. “Il menu comprende sempre mezza minerale”, specifica il mio nuovo migliore amico. “Certo”, taglio corto io.
Le bottiglie dell’acqua erano da 75cl, che per i ristoranti sono una “bottiglia grande”, ma per gli avventori sono molto lontane dall’essere l’equivalente di “due piccole”. Poiché, comunque, il menu include la bottiglia da mezzo litro, comprendo e accetto che la “quota acqua” dei due menu si sia esaurita con la prima bottiglia.

Invece il mio nuovo migliore amico – che mi capisce come nessun altro al mondo – toglie dal conto una bottiglia d’acqua, perché ricalcola che i menu sono due e pertanto ci spettano due bottiglie d’acqua. Evidentemente, se fossimo venuti singolarmente, non ci avrebbe portato via l’acqua poco prima che terminassimo la bottiglia.

Dunque, poiché le bottiglie servite erano da 75cl e non da 50cl, il conto è a nostro favore di 50cl di acqua (in euro, 2,33), ed è la cosa migliore di un pranzo già ottimo

“Non si sono sprecati” – diranno subito i miei Piccoli Lettori.
No, non sono andati in rovina per una bottiglia d’acqua. C’erano, comunque, tutti i presupposti per addebitarmela regolarmente; l’avrei pagata senza batter ciglio e sarei uscita ugualmente soddisfatta del pranzo; magari bofonchiando fino a Ponterosso che sono dei furbetti, ma soddisfatta.
Invece, hanno accortamente valutato che una bottiglia d’acqua valeva due clienti entusiasti che parlano bene del locale con tutti.

Inoltre, siamo stati trattati con gli stessi riguardo e attenzione di clienti più inclini a spendere.
“È così che si fa” – diranno subito i miei Piccoli Lettori.
Sono d’accordo, ma questo non significa che venga fatto così dappertutto.
Anche “un po'” si scrive con l’apostrofo, ma lo scrivono tutti con l’accento (ok, no, voi no, ma insomma… tutti gli altri), con il risultato che, quando si trova qualcuno che fa le cose come si deve, lo si apprezza oltremisura.

Il motivo principale per cui la Trattoria ai Fiori è Larrycette approved è che è in mano a persone che – nel complesso – sanno lavorare.

… Ma, se ci andate, giù le mani dal mio nuovo migliore amico!

 

 


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C’è una guida economica e rapida che – guardacaso – è firmata Larrycette

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About Larry

Un giorno Bruce Springsteen mi porterà via con sé, nel frattempo vivo avventure rocambolesche ogni volta che mi avvicino a un fornello e sottopongo ad attenta analisi tutti i locali nei quali vado a mangiare. Una volta ho incontrato un orientista e l'ho sposato senza comprendere la portata della tragedia. Il lamento dell'orientamento è su Larryetsitalia.net

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