Decima cena regionale: Le Marche. Dessert: il lattacciolo

 

Lattacciolo, altrimenti noto come:

la mia più grande delusione sentimentale dopo la quarta ginnasio.

 

Il lattacciolo è il dolce tipico delle Marche che meglio si presentava all’interno del ricettario: difficoltà “minima”; preparazione: 20 minuti + 45 per la cottura.
Considerando che durante il tempo di cottura posso dedicarmi a tutt’altro, tipo twittare belinate che non interessano a nessuno, una ricetta che mi impegna in un’attività facile per soli 20 minuti è automaticamente la mia nuova ricetta preferita. Neanche pettinarmi è un’attività che mi richiede meno di venti minuti, e di certo non è facile.

L’entusiasmo per il lattacciolo addirittura cresce quando leggo la lista dei gradevoli e reperibilissimi

Ingredienti

3 etti di farina
1 decilitro di latte
2 uova
6 tuorli (è il dolce della mia vita, forse è anche l’uomo della mia vita)
1 etto di zucchero
1 limone non trattato
cannella in polvere
noce moscata
zucchero a velo

Ho tutto.
Siete padroni di non crederci, ma ho tutto, ho perfino lo zucchero a velo, perché non mi piace aggiungerlo al pandoro, ma non sia mai che si butti la bustina, quindi, negli anni, ho accumulato in dispensa zucchero a velo sufficiente a guarnire il monte Nanos.

Addirittura, ho comprato della farina bianca per fare questo dolce, temendo che quella integrale si sarebbe comportata diversamente, rovinando la riuscita, e mi sono pure presa la briga di setacciarla, come queste immagini-choc testimoniano.

 

Le istruzioni per preparare il lattacciolo, inoltre, sono eccezionalmente univoche.

 

Procedimento

Con la farina setacciata e l’acqua necessaria si forma un impasto sodo e lo si stende subito in una sfoglia, poi si mette la sfoglia in una teglia.
Il ricettario del Corriere non lo dice, ma io – nel dubbio – ho imburrato tale teglia.

[Non fate caso al quarto di bue sul bordo del tavolo: è per dopo]

In una casseruola, si fa un ripieno cremoso, sbattendo uova, tuorli, zucchero, cannella, noce moscata e scorza di limone grattugiata.

 

Quando il composto sarà omogeneo, lo si farà cuocere a bagnomaria, continuando a mescolare.

La ricetta specifica “bagnomaria non troppo caldo“. Non ho idea di come si controlli la temperatura dell’acqua.

Mentre cuoce, si aggiunge il latte freddo a filo, tipo olio nella maionese.
Quindi: con una mano si tiene la casseruola sull’acqua, con l’altra si continua a mescolare, con la terza si aggiunge il latte a filo. Perfetto, tutto chiaro.

 

Sempre stando alla ricetta, il composto deve cuocere “fino a raggiungere una certa consistenza“.

Porco belino.
Quale consistenza?
Che cazzo vuol dire “una certa consistenza”? Dammi informazioni precise. Se fai il vago, mi sa tanto che non lo sai neanche tu!

Mi domando come il composto farà mai ad addensarsi, se non contiene farina, ma compio un atto di fede e continuo a farlo cuocere mescolando, senza discutere.

Siccome il composto non cuoceva, io a un certo punto l’ho trasferito sul fornello-candela (quello più piccolo, quello con il potere calorifico di una candela, appunto) e l’ho cotto lì.

 

Anche questo fuoco, secondo me, era insufficiente, ma non ho voluto strafare e ho atteso con pazienza che la preparazione si addensasse.

Naturalmente, non s’è addensata.
Ho barato e ho aggiunto qualche cucchiaio di farina, stemperandolo prima in poco latte freddo, affinché non facesse grumi.

 Magicamente, il composto ha iniziato ad addensarsi.

Mentre cuoce, il ripieno del lattacciolo ha un profumo divino, è probabilmente l’odore più buono che si possa sentire nella vita.
È dolce, ma non stucchevole, avvolgente, ma non soffocante, delicato, armonioso, con un lieve, inaspettato accento speziato che lo rende sorprendente e nuovo e attraente e desiderabile e curioso e soave e appagante come baciare di nascosto una ragazza con l’apparecchio nel cambio dell’ora.

Come tutte le cose belle, anche i baci dati al ginnasio sono destinati a finire, così, quando il ripieno è cotto, va trasferito nella sfoglia (nella teglia).

“Quando il ripieno è cotto?” – diranno subito i miei Piccoli Lettori.
È una bella domanda. Chi può dirlo?
Io ho deciso che lo era quando aveva perso la consistenza del latte e aveva raggiunto quella del Vinavil, ma può essere che fosse troppo presto, o troppo tardi.

Il problema del lattacciolo è che ti accorgi solo alla fine se qualcosa è andato storto e non puoi neanche provare a porvi rimedio in corso d’opera.

In ogni caso, a questo punto non resta che infornare il lattacciolo.

Il piano è che, per effetto del calore del forno, la cottura del ripieno venga ultimata, conferendo ad esso una consistenza simile a quella del budino, che potrà essere servito tagliato a fette, come una torta.

L’idea è proprio carina, peccato che il mio lattacciolo abbia a malapena raggiunto la consistenza di una quiche mal riuscita, acquosa e spugnosa al tempo stesso.
Nel tentativo di dargli più corpo, l’ho lasciato in forno fino al raggiungimento del tempo massimo, bruciacchiando parte della superficie.
La “cialda”, poi, faceva letteralmente schifo, perché fatta di acqua e farina e basta, e quindi immangiabile.

Insomma: una delusione terribile, resa ancor più cocente da promettenti premesse che avevano accresciuto le mie aspettative, paragonabile soltanto all’aver visto Cevasco della seconda liceo che baciava la Garrone tre giorni dopo che eravamo usciti. Garrone che, peraltro, non sarebbe stata capace di ripetere un paradigma neanche con una pistola puntata alla tempia. Garrone che, comunque, non si lavava mai i capelli.

Garrone che, del resto, aveva due tette così.

2 thoughts on “Decima cena regionale: Le Marche. Dessert: il lattacciolo

  1. Pillow

    ma tu, la prossima volta, farai un lattacciolodellamadonna.
    la Garrone vivrà per sempre nell’approssimazione più totale…

  2. Larry Post author

    Non credo farò tanto presto il lattacciolo, ma ho già fatto il Biscotto della Madonna, che sembra un’espressione blasfema, invece è una ricetta del Lazio.
    Quante ne sai, Pillow, quante ne sai…

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