[Meno dodici]
Poiché la pausa pranzo non dura sei ore, passiamo immediatamente al dolce. Zzi ordina la millefoglie, che qui viene servita “alla Suban” ovvero non assemblata (“destrutturata”, amano dire i sofisticati per impressionare l’ascoltatore, ma la verità è che non viene assemblata, non che viene scomposta dopo che le si è data la tradizionale struttura): una cucchiaiata di chantilly ne piatto con lastre di pastasfoglia conficcate sul dorso, a stegosauro. Questo tipo di presentazione ha innumerevoli vantaggi: la sfoglia non si inumidisce a contatto con la crema e rimane sempre (eccetto che per il centimetro quadrato immerso, ovviamente) croccante e leggera, non occorre spendere tempo e fatica per produrre lastre di sfoglia intatte e regolari da sovrapporre, non serve una spada laser per ricavare porzioni presentabili, se le sfoglie si rompono fa lo stesso (tanto la sfoglia viene servita spezzettata “di proposito”) le parti non assemblate si conservano meglio e più a lungo. Personalmente sono una fan di questa soluzione perché dà al consumatore un prodotto migliore e minimizza gli sprechi; se il ristoratore ci guadagna di più (forse è meglio dire che ci rimette meno) e ha la vita più facile, buon per lui; non sono di quei clienti che “siccome pagano” pretendono la martirizzazione del ristoratore, anzi ritengo che certe piccole astuzie, che non vanno a scapito di, bensì aumentano, la qualità del servizio, siano indice di consumata esperienza e professionalità.
Io compio l’errore fatale, inebriata dall’elenco di appetitose tentazioni, di ordinare il misto di assaggi di dolci della casa. Nella mia ingenuità ho creduto che un piatto di assaggi potesse equivalere ad una porzione di uno qualunque dei dolci proposti, invece l’equazione è: 4 assaggio = 3 porzione. La millefoglie è, per fortuna, davvero un cucchiaio da minestra (Zzi ne ha una mezza badilata) e anche il semifreddo alla malvasia con la salsa di frutti di bosco calda non è una porzione intera. La sfida la lanciano le fette di torta, più strette di solo pochi gradi di una fetta di torta “standard”. Sono buone, ma a mio gusto la torta al triplo cioccolato è troppo cioccolatosa (tautologico, mi rendo conto) e troppo cremosa, cioè composta da troppi strati di mousse senza l’intervento riequilibratore del pandispagna, ma mi preme sottolineare che il mio giudizio è inficiato dal fatto che non sono una estimatrice delle mousse (tant’è che non mangio neanche la rigo-jancsi) e che ero appena stata ipersensibilizzata alla panna dal semifreddo (che ha su di me il potere neutralizzante di 0.3 castagnaccio, ma nonostante ciò, continuo a cascarci e – talvolta – addirittura lo ordino esplicitamente). Inoltre, buffamente, non sono neppure una maniaca del cioccolato, perciò una torta composta da tre strati di diverse mousse al cioccolato non mi ubriaca di gioia alla sola vista come, invece, sarebbe giusto facesse, e sono certa che faccia, con soggetti femminili normali. So che a vedermi ingozzare di schogetten del discount in edicola non si direbbe, ma nella mia hit-parade di dolci, quelli con una forte componente di cioccolato non occupano le prime posizioni (dominate, invece, come si sa, dalle preparazioni dalla prepotente connotazione di uova). L’ultima torta è al cioccolato fondente, e incontra assai il mio gusto, sia perché non avere il cioccolato tra le prime posizioni della classifica dei dolci non significa non gradirlo in senso assoluto (vedi l’abbandono di ogni amor proprio davanti alle schogetten del discount di cui sopra), sia perché è una torta asciutta, senza farciture, guarnizioni o altre insidiose forme in cui si possono presentare le creme (che pure so apprezzare, entro il primo litro). A volerci proprio trovare un difetto, è un po’ tanto “asciutta”, sia per effetto del contrasto con la grassezza della torta precedente, sia perché i tannini del cioccolato fondente prosciugano il cavo orale come un carciofo crudo. Penso che mangiando le due torte in alternanza, anziché in successione come ho fatto io, si raggiunga un specie di nirvana azteco in cui tutto è cioccolato, e probabilmente si cambia anche il colore della pelle.
Nel complesso, sia detto, i dolci sono tutti buonissimi e l’opulenza del piatto impareggiabile.
Esco satolla e soddisfatta, più satolla che soddisfatta perché, pur essendo indubbiamente soddisfatta, sono criminosamente satolla. Arrivo in edicola con cinque minuti buoni di ritardo perché non riesco a trascinarmi su per le scale, ma alle tre e mezza ho già in bocca una pizzetta fredda.
Bene, vuol dire che le pietanze del pranzo erano sane e digeribili!