GUEST POST by Stegal67: SOGNI

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Dieci secondi alla fine. Tommy chiama lo schema: “3 basso”. Lo chiama lui perché Paolo, il play titolare, è uscito per falli pochi secondi prima. Uscendo lui, sono entrato io, dopo 39 minuti e 35 secondi di panchina. In quest’ultima fase della stagione non sto giocando molto, anzi spesso non gioco per niente: arrivo a casa ed i miei genitori mi chiedono: “Giocato?”. “No, 40 minuti in panca”. Si domandano e mi domandano chi me lo faccia fare…
Comunque, visto che non rogno molto, l’allenatore preferisce chiamare me come decimo giocatore: così non ha l’assillo di uno che si lamenta in panchina. Questa volta però gli servo. Trenta secondi alla fine e mi butta in campo. A freddo, senza preavviso. Mentre entro in campo mi chiedo cosa si aspetta che io combini.

L’ultimo fallo di Paolo ha dato due liberi ai ragazzi della “Yugo” di Spalato. Consueto due su due di marca plava, e siamo sotto di due punti. Ultima azione, Tommy arriva al piccolo trotto e chiama “3 basso”. Lo schema “3 alto” prevede uno schieramento 1-4, con la guardia e l’ala piccola che si smarcano ai lati i numeri 4 e 5 a bloccarsi reciprocamente all’altezza della linea di tiro libero; il “3 basso” un 1-2-2 con le guardie che si incrociano sotto canestro.

Nove secondi. Occupo la posizione di post basso. Incrocio sotto canestro e vado a sinistra, non mi aspetto di veder arrivare la palla sul mio lato. Viene invece servito Fabio che è salito in post alto oltre la linea di tiro libero, posizione frontale. Fabio si gira, è marcato.

Otto secondi. Lo schema prevede che io faccia qualcosa… forse un “gioco a due” con Fabio mentre sull’altro lato il pivot e la guardia si incrociano ancora. Fabio non ha un gran tiro, è anche lui una riserva: Carlo e Giorgio sono fuori anche loro per falli, spesi per contenere i lunghi spalatini.

Sette secondi. La mia versione del gioco a due. Pianto una gomitata nel petto del mio marcatore, virata di 360° per lasciarmelo dietro e taglio a canestro. Culone in fuori, gomiti larghi per occupare spazio. Il mio marcatore mi tira un gran cazzotto nelle reni e si piazza alle mie spalle per cercare di deviare un passaggio che…

(Sei secondi)… non arriva. Fabio, nonostante la linea tra me e lui sia sgombra, non mi vede e scarica la palla fuori dall’altra parte. Io esco dall’area esattamente da dove sono entrato, penso che il gioco decisivo si svilupperà dall’altra parte.

Cinque secondi. La guardia che ha ricevuto il pallone è marcatissima. Tommy troppo lontano per inventare qualcosa. La palla torna a Fabio che era rimasto praticamente nella stessa posizione. Decido di riprovarci.

Quattro secondi. Bump sul difensore, virata e prendo posizione. In quel momento mi accorgo che i miei occhi non guardano la palla ma gli occhi di Fabio, e che io suoi occhi non stanno guardando i difensori ma guardano i miei. Il passaggio parte.

Tre secondi. Ricevo in mezzo all’area e sento tutta la pressione di questo ragazzone slavo sulla schiena. Potrei tentare un gancio, ma finirei sotto l’ombrello del pivot che sta arrivando a raddoppiare… inchiodo il piede destro, schiaccio palla per terra e scivolo a canestro in direzione opposta.

Due secondi. Il difensore ha capito con un attivo di ritardo. Era TRA me ed il canestro un attimo prima, un attimo dopo sono io che sto mettendo la spalla destra tra lui e il ferro.

Un secondo. Lascio andare la palla. Verso il quadrato magico disegnato sul tabellone. Il mio marcatore sbraccia ma non ci arriva. L’altro difensore fa un gran salto che gli consentirebbe di stoppare un tiro diretto a canestro, ma non uno che viaggia verso la tabella.

Il fotogramma successivo vede me che corro indietro per assumere una posizione in difesa. Siamo pari. La sirena che manda all’overtime non la sento nemmeno per il rumore che arriva da tutto attorno. I supplementari sono una passeggiata. Ricominciamo da dove avevamo finito: Tommy mi serve a sinistra per due punti facili in sottomano. Spalato sbaglia, noi corriamo e Tommy segna da 3. Un supplementare dura cinque minuti, una vita. Ma quando hai passato le ultime azioni a ragionare sul filo dei secondi, vuoi fare tutto subito, vuoi rimontare subito. I tiri affrettati diventano rimbalzi lunghi per noi. Vedo Tommy, sempre lui, prendere un pallone lungo mentre io sto già scappando in contropiede: altri due facili. A metà del supplementare infilo uno dei rarissimi tiri da tre punti della mia vita cestistica e la partita è praticamente finita. 5 minuti e 20 di gioco. Nove punti.

Ancora oggi, a vent’anni di distanza, ricordo quell’azione sotto canestro nei minimi fotogrammi, ma solo una cosa non sono in grado di vedere. Ed è l’unica cosa che non ho scritto: non vedo la palla che entra nel canestro.

Qualche psicoterapeuta ne farebbe argomento di studio, magari con annesse chiacchierate su un lettino di analisi: ancora oggi posso chiudere gli occhi e ricordare azioni, fasi di gioco, partite vinte e perse (con un saldo, per mia fortuna, decisamente attivo) in 12 anni di carriera. E così come sento un brivido lungo la schiena se qualcuno nomina un “Lome” di orientistica memoria, allo stesso modo non sono in grado di vedere con gli occhi della mente un pallone tirato da me entrare a canestro; non quando mi vedo tirare da fuori, non se mi vedo tirare da sotto: la palla rimbalza sull’anello una, due, tre volte ed esce. Sempre. Se provo mentalmente a schiacciare a canestro, il pallone svanisce letteralmente dalle mie mani un istante prima di affondare nella retina: persino quando provo a immaginare una bella tomahawk, come nei tornei estivi in Romagna quando facevamo abbassare di qualche centimetro gli anelli per impressionare le ragazze tedesche in bikini che venivano a vederci giocare direttamente dalla spiaggia.

Quando decisi di smettere di giocare, soffrivo ormai di allucinazioni; ad occhi aperti o chiusi, vedevo un pallone da basket saltare qua e là per tutto il mio campo visivo: su uno sfondo scuro mentre cercavo di addormentarmi, spesso invano, oppure lo vedevo ballonzolare da un oggetto all’altro durante le ore del giorno. Il tempo di latenza di una partita, il tempo necessario per mettermi tutto alle spalle, era di 24-48 ore. Mi stavo flippando il cervello, non avevo più un gioco, non avevo più nemmeno la fiducia dell’allenatore e dei compagni di squadra. Non avevo più motivo di giocare, con i sogni che erano diventati tutti incubi.

Poi, una volta deciso di smettere, il mio gioco ha virato sui cardini: basta preoccupazioni, basta pensieri, era diventata una specie di “missione a termine” che mi faceva vedere ogni azione come se fosse l’ultima. Il bello è che non ricordo nemmeno qual è stata l’ultima partita che ho giocato, l’ultima azione che ho giocato, se quando la sirena ha dato il segnale di fine partita ero in campo o in panchina (più probabile la seconda)…

Per mia grande fortuna, il destino aveva pronta per me una alternativa decisamente migliore. Da 18 anni, ormai, vado inseguendo cose bianche ed arancioni per boschi, prati e valli. Le persone che ho conosciuto praticando orienteering si sono dimostrate di gran lunga migliori di quelle che ho frequentato sui campi di basket. Forse sono diventato più maturo io, che non ho più nulla da chiedere alle classifiche esposte gara dopo gara che mi vedono invariabilmente verso il fondo; anzi, forse non me ne importa proprio più nulla del risultato finale! Del fatto stesso che ci sia un risultato! L’obiettivo di ogni gara è quello di fare un secondo meglio di quello che potrei fare mantenendo la concentrazione al 100% per tutta la gara e spingendo sulle gambe con le energie sempre più risicate che mi ritrovo. Il saldo vede più sconfitte contro questa mia ombra che vittorie.

Ma adesso ogni notte che precede una gara vengo accompagnato fino all’alba da un sogno nel quale sono nei boschi, cerco lanterne, vivo avventure paradossali in compagnia di amici non immaginari, ma assolutamente reali, che incontro poi il giorno dopo in zona partenza. Possono essere avventure plausibili o semplicemente impossibili; partecipo ad una staffetta con ragazzi che non sono miei compagni di squadra o con un formato di gara che più cervellotico non si può, o sono in ritardo ad una partenza che per qualche motivo non riesco mai a raggiungere, o sono semplicemente a gareggiare in un posto diverso da quello dove mi sono iscritto, o scopro di essermi iscritti ad una MTB-O e non ho portato la bici, o prendo parte al campionato del mondo… (ne ho vinti due, di campionati del mondo “notturni”: ne ho fatto persino menzione in una intervista ai Campionati Mondiali master portoghesi; la pubblicazione dell’intervista stessa deve aver fatto strabuzzare gli occhi ai lettori: chi diavolo poteva mai essere questo matto?).

Ogni volta che mando un augurio agli orientisti, dico loro di non smettere mai di sognare, perché i nostri sogni non si spengono all’alba e c’è sempre la possibilità che si avverino. I miei sogni…? Mi accontento che mi portino attraverso la soglia che separa il sonno dalla veglia, ed invariabilmente se ho sognato qualcosa di orientistico (per improbabile che sia) potreste vedermi a colazione con il sorriso sulle labbra, pronto a raccontare l’ultima avventura.

E pronto a chiedere agli amici: “Ma tu… cosa hai sognato questa notte?”

6 thoughts on “GUEST POST by Stegal67: SOGNI

  1. The Speaker

    Premesso che non ho capito nulla del racconto… (dubito che possa esistere sulla faccia della terra una persona così mentalmente disturbata), ecco il mio sogno di stanotte.
    Stavo sul furgoncino che mi portava alla partenza di una gara, tracciata da Christopher Gallo (esiste: tessera Fiso VE2804). La partenza era a Sesto Ulteriano e le ultime lanterne erano posate al Parco di Monza. Prima di svegliarmi, stavo commentando con Chris che il percorso mi sembrava un po’ troppo lungo e lui mi ha risposto che quella era solo metà, perchè avremmo anche dovuto tornare indietro a Sesto Ulteriano facendo le lanterne a ritroso.

  2. Larry

    Quasi quasi chiedo alle Tartanrughe se possiamo destinare i proventi della prossima iniziativa a un progetto di recupero di ‘sto ragazzo.

  3. Dario

    E pensare che io avrei avuto un interessantissimo racconto di una vittoria sul filo di sirena con mio canestro in tap-in all’ultimo secondo dopo che non molti minuti prima un avversario con una gomitata mi aveva fratturato il setto nasale…

    Comunque, credo che i soldi della Tartanrughe andrebbero inutilizzati. Non esistono camicie di forza della taglia di ‘sto ragazzo.

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