Working on a dream tour – Stoccolma 2009, parte IV

L’avventura svedese della coppia di fan di Springsteen partita da Trieste giunge, con questo giovedì, al suo epilogo.
Riusciranno a conquistare l’ambito Braccialetto anche questa volta?
E avranno, anche questa volta, il cattivo gusto di vantarsene come bambini?

[…continua dal 13 Agosto]

Se non si ha voglia di ripiegare su panini e pizza, procacciarsi il cibo la domenica nelle zone meno centrali è un’impresa. Arranchiamo come i disperati delle barzellette da un miraggio all’altro, cioè di gruppo di tavolini sul marciapiede in gruppo di tavolini sul marciapiede, approdando sistematicamente sulla soglia di locali chiusi e scorgendone sempre un altro, rigorosamente in fondo alla strada, che ci sembra aperto.
Esprimo tutta la mia femminilità dando in escandescenze perché si sta facendo tardi e stiamo perdendo tempo per una questione trascurabile e marginale come il mangiare, quando
tutta Stoccolma si sta mettendo in coda. Si sfiora la crisi coniugale perché – è ovvio – se restiamo fuori dal Pit è colpa di mio marito e del suo ostinato capriccio del pranzo. Quando ci imbattiamo quindi nel Restaurang Dagobert non andiamo tanto per il sottile, fingiamo di non vedere le pizze nei piatti dei pochi tristi altri avventori e ci accomodiamo fiduciosi. Sagacemente scegliamo piatti veloci da servire, ma io commetto l’errore fatale di ordinare un’insalata, che fa presto ad arrivare in tavola, ma ci vuole una vita per consumarla. Ora non solo si rischia di fare ulteriormente tardi, ma la colpa potrebbe diventare mia. Decido la sola cosa da fare in questi casi: non masticare.

Siamo in coda alle tre. Ho l’impressione che i gamberetti stiano tornando in vita nel mio stomaco, ma non ha alcuna importanza: sono le tre e siamo in coda. E quel che è più importante, gli altri non hanno braccialetti diversi da quelli delle sere precedenti, segno che quelli di oggi non sono stati ancora distribuiti. Va tutto bene, c’è un bel sole, una brezza piacevole, stasera vedo Bruce e mio marito è di nuovo un uomo meraviglioso.
L’idillio si infrange circa mezz’ora dopo quando, tirando su il naso dai nostri libri (
Robinson Crusoe per me e Il Professionista per lo spilungone che m’ha sposata: anni di code ci han fatti attrezzare), vediamo passare un paio di soggetti con dei braccialetti rosa. Scopro così che l’arresto cardiaco è una brutta sensazione. “Magari era gente che era a Tampere, saranno braccialetti vecchi”, cerchiamo di consolarci.
Poco dopo le persone che passano con i braccialetti rosa sono sempre più numerose e le ipotesi più strampalate mi passano per la testa. Perfino Sarma è paralizzata.

Sarma è la mucca che suona l’ukulele che vive nella mia testa. È l’unica motivazione plausibile che mi sono data per spiegarmi le volte in cui dico e faccio cose che mi sorprendono: Sarma suona e mi distrae. Ma ora siamo entrambe pietrificate, il suo cervello di mucca musicale e il mio di umana umorale si domandano perché quelli hanno i braccialetti e noi no. Dove li hanno presi? Chi glieli ha dati? Perché io no? Con quale assurdo criterio li hanno distribuiti? Perché non hanno cominciato da me? Non lo vedono che è un sopruso? Ho le vertigini dalla delusione e dalla rabbia, sono a disagio, mi pare che tutti intorno a me si stiano agitando e si facciano più vicini, mi sento perfino tirare per un braccio. È mio marito che porge il mio polso all’omino coi baffi della security: quello che sta distribuendo i braccialetti rosa.

I Braccialetti

Come da copione, poco dopo – proprio mentre Venerdì riconosce suo padre nel prigioniero salvato – inizia ilsoundcheck. Sentiamo la preziosa Fade away e la surrealeSurprise, surprise. Surreale perché, semplicemente, non può essere che chi è stato in grado di comporre brani come Thunder Road, Born to Run, The River, Because the Night o la recente the Wrestler (solo per citare quelle note a tutti, certamente non le sole migliori) abbia potuto scrivere Surprise, surprise. Rettifico: quanto a scriverla, avrebbe potuto farlo benissimo; suppongo che anche Degas potesse fare astine e cerchietti, ogni tanto. Quello che poteva risparmiarci era il pubblicarla. È stupida. È “inispirata”. È brutta e basta. Ma non è questo il luogo, e io non sono la persona indicata, per fare della critica musicale. E poi, si sa: io ho da Springsteen esagerate aspettative e sono spesso dura con lui. Ogni volta che esce un disco, mi convince poco e proclamo che se andrò a sentirlo dal vivo, lo farò solo per le canzoni vecchie e lo spettacolo in quanto tale. E, comunque, per poche volte. Prima che il Boss canti, insomma, lo avrò già rinnegato tre volte.

L’ingresso nello stadio di Stoccolma è, come di consueto, tranquillo e sicuro; gli addetti alla sicurezza evitano corse pazze, peraltro rese fisicamente impossibili da uno spiegamento di chioschetti, bancarelle e venditori ambulanti di birra già pronta in bicchiere. Per l’ultima serata scegliamo la transenna della volpe, ovvero appoggiati alla transenna posteriore del Pit, un posto confortevole, fuori dalla lotta per la sopravvivenza, che ci permetterà di goderci il concerto in santa pace. La chiamo transenna della volpe perché è quella più furba da occupare: non richiede eccessivi sforzi per la conquista, permette di trascorrere l’attesa comodamente seduti, evita spinte e pressioni, regala una visione del palco completa, ma ravvicinata. Meglio del palco reale!
La verità è che è la transenna della volpe perché è quella alla quale si appoggiano coloro che hanno trovato la transenna davanti “troppo acerba”.
Da qui – dove, rispetto ai pochi metri più avanti che avremmo potuto conquistare, davvero si gode di qualche vantaggio in termini di tranquillità – mi concedo una puntatina a incipriarmi il naso. Quando rientro con i caffè caldi in mano, rischio di ustionare diverse schiene, tanto si è riempito il pit ed è diventato difficile spostarsi.Bruce si presenta con i consueti quaranta minuti di ritardo.

Non ho mai capito perché i concerti inizino in ritardo. Sul serio: è perché l’artista non sapeva di doversi esibire ed è stato colto di sorpresa? O è perché gli strumenti devono decantare sul palco per un certo lasso di tempo, altrimenti suonano male? Ad un certo punto è tutto pronto, ma il concerto non comincia. Perché? È per evitare di cominciare a divertirci prima? Di trovare ancora la metropolitana aperta quando usciamo? Chissà!
Finalmente si degna di comparire, il
nannetto (una via di mezzo tra nano e nonnetto, giacché quando mi fa arrabbiare, mi diverto – come per fargli un dispetto – a fingere che siano vere le assurde maldicenze che lo vorrebbero bassotto e avanti con gli anni). Come le sere precedenti, porta Clarence Clemons al proprio posto dietro i sassofoni, facendolo appoggiare sulla propria spalla. Clarence ha difficoltà evidenti a deambulare, io gli diagnostico la gotta: oltre che usare un bastone, sta quasi tutto il tempo seduto e ha due assistenti che gli passano gli strumenti e gli massaggiano le gambe. Prima di lasciarlo, Bruce gli sorride e mostra tutte le sue rughe. Dio mio, come sono vecchi!

Apparentemente The river

La perla della serata è, come previsto, Fade away. Mentre Bruce la esegue, duemilatrecento chilometri più a sud una coppia sta cenando al ristorante. Lei aspetta una bimba e il pancione non le ha permesso di prendere l’aereo per assistere ai concerti, ma qualcuno la informa tempestivamente, con un messaggio sul cellulare, di quello che sta accadendo. E lei, un po’ per la frustrazione, un po’ per gli ormoni che alla trentesima settimana non devono essere molto stabili, non trattiene le lacrime, lui sbigottisce e fa, davanti a tutti gli avventori, la figura dello spregevole vigliacco che la scarica incinta.

Finito il concerto, recuperiamo i bagagli in albergo, impietosiamo il portiere di notte con la commovente descrizione della notte all’addiaccio che abbiamo di fronte fino ad estorcergli un caffè gratis, saliamo su un bus il cui termometro, nella luminosa notte della campagna, indica zero gradi e giungiamo ad accomodarci, l’uno dignitosamente, l’altra molto meno, sulle poltroncine dell’aeroporto.
Nonostante il terrore del volo, siamo talmente stremati che io – chi l’avrebbe mai detto? – mi addormento profondamente prima che l’aereo possa dirsi completamente decollato. Anche mio marito, poco dopo, cede al pisolino. Perfino Sarma non ha la forza di suonare. Dicevamo: chi sono quelli vecchi?

Se volete rileggerlo tutto di seguito, vi ricordo che questo racconto è stato tratto dal numero 124 di Fucine [www.fucine.com], webmagazine di cui apprezzo i contenuti, ma soprattutto la tendenza a non accorgersi che gli frego gli articoli.
Chissà se ne pubblicheranno altri di questo genere…chissà…

[Le puntate di questo racconto sono finite, ma ci sono molti altri post da non perdere che puoi ricevere gratuitamente nella tua casella email iscrivendoti!]

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