Being Agenda Larrycette – Epilogo [3]

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Siccome sul foglietto arancione del secondo passaggio del postino non c’è scritto a quale ufficio postale viene lasciato in giacenza il pacco [giuro: c’erano le righe in bianco. Non avete idea di quanto sia pentita di non averne fatto una scansione per mostrarvelo], vado per tentativi e opto per quello presso il quale solitamente giacciono i pacchi destinati a casa mia.
Per fortuna i nostri portalettere hanno una spiccata attitudine a passare quando non ci siamo e siamo diventati espertissimi del ritiro in posta.
Ovviamente l’ufficio è quello giusto, ma data l’aura non proprio fortunata che aleggia su questa spedizione, chiedo gentilmente alla signora dello sportello presso il quale sto pagando alcuni bollettini – fra cui l’iscrizione all’associazione Sogni d’oro – di controllare che effettivamente lo sia. Ella, pur non rientrando strettamente nei suoi compiti, lo fa di buon grado, anche comprendendo il disappunto di quella che ha trovato il biglietto compilato a metà, ma mentre aspetta di visualizzare la schermata della giacenza, passa una collega di rara solerzia che le dà dei consigli non richiesti e apparentemente nemmeno necessari. Non appena le due hanno la conferma che il pacco è in giacenza, la seconda [cioè non quella gentile, quella solerte] mi annuncia con scazzo che è lì dal 30 Marzo. Lo dice proprio con il tono di quella che sottintende “Cazzo vuoi, che domande fai, è una vita che sta qua, ti par l’ora di svegliarti?”. Ora ci tengo che sia messo a verbale che ho ricevuto l’avviso in data 29 Marzo e che mi sono recata a ritirare il pacco il 2 Aprile, ovvero il primo sabato utile. Sottolineo che l’avviso diceva esplicitamente che il pacco sarebbe stato disponibile per il ritiro dopo due giorni lavorativi dalla data del presente avviso, il che solitamente significa, nella fattispecie, il 1° Aprile [due giorni interi dopo quello dell’avviso] o – ma non è mai la situazione delle poste, perché quando ho interpretato così m’han dato della scema allo sportello – il 31 Marzo [due giorni interi compreso quello dell’avviso]. In nessun caso, se non in una lingua che non è l’italiano, può significare il 30. E comunque, sia detto per inciso, il cliente ha 15 giorni per ritirare il pacco, quindi non mi pare il caso di scoglionarsi per un paio di giorni. E, sempre per inciso, se era per criticare, poteva farsi gli affari suoi.

Al termine della lunga coda per i pacchi [allora non sono l’unica che ha solo il sabato per andare in posta, nonostante lo sconcerto dell’impiegata solerte] consegno il mio foglietto all’impiegata dello sportello, alla quale assicuro la presenza del pacco. Controlla a sua volta, conferma e va a prenderlo. La vedo aggirarsi smarrita senza trovarlo, poi io lo individuo perché ne riconosco la forma e vedo l’indirizzo di casa mia a caratteri cubitali su un lato, e glielo indico. L’impiegata è incolpevole perché cercava un “pacco celere uno” e ravanava fra le spedizioni di quel tipo; peccato che la busta fosse fuori posto e io l’abbia vista per caso.

E ora, il gran finale.
Pensate che sia finita, una firma, un documento, e arrivederci?
Macché!
Devo pagare cinque euro.
Ebbene sì. Io ho fatto reclamo e devo pagare cinque euro.
Questo perché quando ho effettuato la spedizione ho dimenticato di barrare la casellina per chiedere la restituzione del pacco in caso di mancata consegna [io, scema, penso che la mancata consegna dipenda dal destinatario, non dalla voglia del consegnante, e non comprendo a pieno l’importanza cruciale della casellina], di conseguenza per recuperare il plico è stata svolta una ricerca supplementare ed esso è stato sottratto dalla pila delle cose destinate al macero, imbustato nuovamente e rispedito, con conseguenti costi di gestione e spedizione di cinque euro, a carico di chi ha richiesto il recupero.
Non fa una piega.
Surreale che un pacco che è stato presumibilmente a dormire per settimane in qualche magazzino fosse già fra le cose destinate al macero proprio quando ho chiesto la restituzione, ma sacrosanto che si applichi il regolamento: non ho chiesto la restituzione a suo tempo e pago per averla a posteriori.
Conquisto l’agenda e me ne torno a casa lieta che la faccenda sia conclusa.

Poi il lampo di lucidità che squarcia la tenebra della mia amnesia.
Ricordo e ricontrollo il testo del reclamo che ho sporto:
“[…]chiedo gentilmente che mi venga restituito l’importo di € 12,00, corrispondenti al costo del servizio “Paccocelere 1″ e, se possibile, che mi venga restituita la spedizione all’indirizzo […]”

Nella mia ingenuità non ho richiesto espressamente che la restituzione fosse a titolo gratuito, ma poiché ho chiaramente detto “se possibile”, le Poste non erano tenute a restituire l’agenda, ma potevano limitarsi a rimborsare la spedizione. Si tratta, dunque, di una scelta compiuta dalle Poste e a rigor di logica dovrebbero far fronte loro ai costi di una gestione che hanno liberamente scelto di affrontare.
Inoltre: dove sono i miei dodici euro?
Io ho chiesto il rimborso e mi ritrovo un’agenda [alla quale non tenevo particolarmente] per la quale devo pagare e nessun rimborso. Se ne deduce che il reclamo non è accettato, o sbaglio?
Allora, se il reclamo non è accettato, non è neanche presa in considerazione la richiesta di restituzione dell’agenda, quindi – nuovamente – l’iniziativa di recuperare, imbustare e rispedire il materiale è tutta delle Poste e nulla dovrebbe essere dovuto, perché non è avvenuta in conseguenza di una mia indicazione.

Quindi ritengo che le Poste, finora, mi abbiano becciato diciassette euro. Non credo che vivrò abbastanza per rivederli, ma credo che ne butterò via un altro paio per fare un altro reclamo!

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