Brescia, 23 ottobre 2011, Trofeo centri storici [5 – fine]

I lombardi – intendo: gli orientisti lombardi – si rivelano delle pippe pazzesche in quanto a competenza sugli outlet.
Rem non guida neanche, figuriamoci se conosce luoghi per recarsi nei quali è indispensabile la macchina.
The Speaker osa addirittura menare vanto della sua idiosincrasia per i centri commerciali, dimostrando che neppure ha chiara la differenza fra un orrendo centro commerciale e un poco amichevole, ma indispensabile, outlet grandi firme; meno mille punti.

Lucy van Pelt! Lucy van Pelt è una femminuccia ed è lombarda, lei avrà sicuramente la risposta.
Macché. È vagamente a conoscenza dell’esistenza della struttura. Io non capisco a cosa serva essere tanto bravi a leggere le cartine e ad usare la bussola se, poi, si applicano queste abilità solo per sport e non quando ce n’è realmente l’esigenza, ad esempio per fare acquisti convenienti. Mi rassegno all’imminente destino di andare in giro vestita di stracci perché “non ho niente nell’armadio” e decido di consolarmi con il pranzo… tanto presto non avrò più vestiti in cui dover entrare, perciò è inutile badare alla linea.

Prima di farmi premiare per lo sforzo di aver portato a termine la gara andando a pranzo in una di quelle deliziose trattorie affastellate dietro la piazza principale della città, esigo comunque un minimo di shopping consolatorio. La domenica i negozi sono chiusi (poco male, non avendo notato alcun negozio di mio gradimento, a parte quello di pianoforti, articolo che peraltro già posseggo, come presto vedrete), ma mi viene in soccorso la Coldiretti, con il mercatino dei suoi produttori.

Nel frattempo, la giornata si è fatta primaverile, quasi rivierasca, e i 15 gradi col sole non sono la condizione ideale per acquistare formaggi e latticini che vedranno il frigorifero solo dopo sei/otto ore, quindi ci tratteniamo e ne compriamo due chili (assortiti). Quasi quasi potrei farmi un cappotto di caciotte.

Dopo mezzogiorno caramboliamo da una porta di ristorante all’altra, leggendo e confrontando i rispettivi menù. Alla fine, Zzi sceglie liberamente di andare a pranzo in quello che io ho indicato come mia prima scelta, il ristorante Torre di Porta Bruciata. Dall’esterno, con le teste di asinello (o cavallo?) disegnate e appiccicate alla porta, non è particolarmente promettente, ma non appena varchiamo la soglia capiamo che non ho perso il fiuto. Il locale è un piacevole connubio di vecchio e nuovo, con sedie di Kartell in plastica trasparente e muri in pietra, bancone con fianchetto illuminato a colori acidi e tovagliame di stoffa e posateria pesante.

Io sono ancora presa dal sacro fuoco della dieta Gift (“A proposito, Larry, è un po’ che non ce ne parli! Come procede?” – Chiederanno subito i miei Piccoli Impiccioni. Lascio deliberatamente cadere il discorso) e, soprattutto, ho ancora il ricordo del fuoco di Sant’Antonio che mi ha colpita la sera precedente, quindi faccio poco la spiritosa e ordino minestrina e bistecchina. Da bere: ACQUA!

La mia “minestrina” è, in realtà,  una deliziosa crema di zucca, molto densa e delicata, servita con un ciuffetto di pancetta croccante, mentre la “bistecchina” consiste in due (o forse tre, non ricordo con precisione) fettine di filetto di maiale all’arancia, per il quale ho una predilezione.
Zzi sceglie un primo di cui non ho il minimo, sbiadito ricordo (ma del quale so essere stato contento) e delle fettine di cavallo rapidamente cotte ai ferri e profumate con un misto di erbe, secondo tradizione (ci dicono).

Non prendiamo il dolce, ma il mio infallibile fiuto dice che possiamo fidarci del caffè. Vi ho mai parlato del mio infallibile fiuto per il caffè? Probabilmente già molte volte, ma lo farò ugualmente di nuovo. Io ho per il caffè un vero e proprio sesto senso. Se, come me, non credete al paranormale e siete fra le trentasei persone in Italia che non leggono mai l’oroscopo, il mio fiuto per il caffè vi darà del filo da torcere, perché non ha nulla di razionale, eppure è talmente infallibile che non può essere una coincidenza: da una semplice occhiata io sono in grado di determinare con esattezza se l’espresso che fanno in un posto è squisito, buono, mediocre, bevibile o ripugnante. Particolarmente, se è vero che la differenza fra squisito e buono o mediocre e bevibile potrebbe dipendere dal gusto personale e non essere sempre condivisa, il mio fiuto si rivela prezioso quando individua – e mette in salvo da – i caffè ripugnanti. È come un campanello d’allarme che mi suona nella testa; credo che i cani sentano qualcosa di simile quando sta per arrivare il terremoto. Zzi mi chiede “Com’è il caffè?” e io, nei casi più gravi, gli abbraccio forte le caviglie e lo imploro disperata “Non farlo! Amore mio, ti prego: non farlo”. In genere, i ristoratori non gradiscono, ma almeno mio marito è salvo.

Qui il mio istinto ha detto “via libera” e, in effetti, il caffè era buono, solo che il mio istinto del caffè non aveva previsto il servizio. Insieme all’aromatica bevanda, infatti, sono stati serviti degli assaggi di piccola pasticceria secca: un paio di biscottini, forse un bacio di dama e, soprattutto, un brutto-ma-buono. Io, per i brutti-ma-buoni, farei qualsiasi cosa: sarei capace di attraversare a nuoto la Manica, di saltare nel cerchio di fuoco vestita da tigre, di andare in giro con un bauletto di Vuitton (ma solo dove non mi conoscono perché, vero o finto, sempre tamarro è). Siccome ho fatto una gara di orienteering, me ne meriterei una teglia, ma sono una donna a virtuosa e ne mangio solo uno. Attilio capirà, e se non capisce, vuol dire che non ha mai mangiato un brutto-ma-buono.

Quando torniamo a prendere la macchina, gli orientisti sono ancora là che   ciondolano con le seconde manches. Noi recuperiamo le carte tanto gentilmente tenute da parte da Elvio e puntiamo il muso della macchina verso est, concludendo così la nostra esperienza a Brescia.

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