Chicken Challenge 2010, Mittagessen in Abtenau

[I racconti delle gare del prologo sono qui e qui, adesso parliamo un po’ di cibo, per cortesia!]

Nella ridente Abtenau consumiamo un pasto frugale seduti nella graziosa piazza principale del paese, con vista sul cancello del camposanto da una parte e sulla minacciosa montagna tempestosa dall’altra. Ordiniamo due menù del giorno, che si compongono di zuppa di pomodoro in cornice e una parola lunghissima che non ricordo e che non sono neanche stata in grado di leggere, ma che conteneva dei segni simili a quelli di “gnocchetti” (spätzle) con del [nota del traduttore] formaggio (kas, senza umlaut e senza e, ho scoperto che nella zona è un fenomento frequente) e altre cose [nota del traduttore] arrostite (gebratene) che non ho capito bene, ma sembran cipolle (zwibeln), o gemelli (zwilling), sicuramente dubbi (zweifel), ma forse sono fritte (non mi ricordo mai se gebraten vuol dire fritto o arrosto, ma, tutto sommato, ci importa?) e più probabilmente potrebbero avere qualcosa a che fare con le patate (erdapfel, così, singolare, il plurale è del traduttore perché dire che avevano a che fare con la patata crea aspettative che poi non possono essere soddisfatte). Da bere prendiamo due birre, perché con questi torridi dodici gradi, all’aperto, ci vuole proprio una bevanda rinfrescante. La zuppa di pomodoro è uguale a quella che si mangia in Istria, solo leggermente più densa e guarnita con la panna acida, la cornice, per l’appunto. Praticamente è salsa di pomodoro uscita dalla bottiglia e riscaldata, ma non è mica cattiva e anche se è appena mezzogiorno e un quarto e abbiamo fatto una monumentale colazione solo due ore prima, la mangiamo con gusto perché è bella calda. Gli spätzle sono di patate (ah, ecco), conditi con burro e formaggio (ah, ecco) e gratinati al forno (mmm forse…) e guarniti con dei ricciolini marroni che si rivelano essere cipolle fritte (ah! Ecco!). Sono buoni, le cipolle fritte non c’entrano un cazzo, ma sono gradevoli; basta mangiarle prima, a mo’ di stuzzichino, e poi dedicarsi agli gnocchetti al forno, e tutto risulta squisito. Solo che sono porzioni da naufraghi, uno che ha la fortuna di nutrirsi quotidianamente (non necessariamente 3 volte al giorno, anche una sola) non può finire tutti gli gnocchetti, essendo il piatto costituito da un grazioso tegamino a due manici, diametro diciotto, con bordi inclinati verso l’esterno alti quattro dita, pieno al colmo, con altezza massima della pietanza dal fondo di circa 8/10 centimetri, al netto delle cipolle fritte. Siccome sono una fogna ne mangio metà, ma devo lasciare il resto. Io odio sopra ogni cosa avanzare il cibo, è un genere di spreco che non sopporto (non che altri mi piacciano, ma quello del cibo mi è proprio odioso), ma questo piatto è davvero imbattibile. Zzi, che non per niente è il mio eroe, lo mangia tutto. La sua tecnica consiste in un approccio metodico e costante, io, invece, mi faccio prendere da un iniziale entusiasmo e mi incoccono dopo il primo quarto. Quando la cameriera ci toglie i piatti, mi sgrida perché non l’ho finito, io mi scuso tanto e le spiego che era proprio abbondante, che mangio meno di quello che sembra, alludendo al mio fisico non proprio nervoso e cercando di buttarla sul ridere. Lei non ride. Devo avere un tedesco pessimo. Prende il piatto di Zzi e mi fa notare che lui lo ha mangiato tutto. Eh, lo so, io non ce la facevo, mi spiace. Mi spiace veramente, ma non è che posso sentirmi male perché voi mettete troppi spätzle nei piatti. Anche le vecchie qua a fianco ne hanno avanzato molti, vorrà pur dir qualcosa…

Ora, io non è che sappia proprio il tedesco, so leggere i suoni, so qualche parola fondamentale e qualche frase utile in viaggio (tipo “willst du mit mir ins Bett kommen”, ma ormai non saprei che farmene e non sono mai stata particolarmente certa della sua esattezza, forse è solo una traduzione letterale dell’italiano, ma raggiunge lo scopo), perciò molte volte devo farmi ripetere quello che la gente mi dice. No, no. Ho proprio capito bene: mi chiede se non poteva mangiare Zzi gli gnocchetti che ho avanzato io. Selbverstendlich nicht, ma non sono abbastanza pronta e chiedo solo il conto.

6 thoughts on “Chicken Challenge 2010, Mittagessen in Abtenau

  1. marirosa

    A proposito di dialetto triestino propongo questo simpatico articolo di Lino Carpinteri da Il Piccolo del 10 marzo 2007 riguardo “INCOCONAR”

    “Imbattersi in una ragazzina con le trecce, magari adorne di fiocchi alle estremità, al giorno d’oggi è ormai raro quasi come scoprire un quadrifoglio in un prato. Invece, una volta – non ai tempi delle trecce morbide sull’affannoso petto di Ermengarda, ma nell’ultimo quarto del secolo scorso – si vedevano anche madri di famiglia che, restie a sacrificare le «code» fanciullesche, le avvolgevano a cerchio fermandole sulla cima del capo o dietro la nuca.

    Era questa l’acconciatura che, a Trieste, si soleva chiamare «cocon» o «cucugnel», la cui variante «crucugnel», vicina a «crùculo», rilievo tondeggiante, cocuzzolo, suggerisce il collegamento con l’equivalente crocchia della buona lingua, derivante dal latino «conròtula», capelli arrotolati, attorcigliati. Versione elegante del «cocon», che il Tommaseo, accosta ingegnosamente a «cochlea», per la sua analogia con la chiocciola, è il francese «chignon», ottenuto con la chioma raccolta a forma di nodo (mentre l’altrettanto francese «cocon» significa bozzolo).

    A questo punto, il discorso da parrucchiere per signora potrebbe concludersi se, a creare legittime perplessità, il nostro dialetto non avesse il verbo «incoconar», che ci riporta all’antica quanto crudele pratica, purtroppo solo teoricamente vietata, di ingozzare le oche per ingrossarne a dismisura il fegato dal quale si ricava il pregiato «foie gras». La palese somiglianza tra incoconar e il vocabolo del quale s’è parlato sin qui ha mandato in confusione alcuni dialettologi, tratti anche in inganno dal Kosovitz il cui venerando vocabolario del dialetto triestino non fa menzione alcuna del cocon inteso come tipo di pettinatura femminile, ma gli dà esclusivamente il valore di «cocchiume», citando al riguardo il modo di dire «serar la spina e spander per el cocon».

    Chi, legittimamente stupefatto, si domanda quale relazione ci possa essere tra la spina e il cocon e come mai quest’ultimo riesca a spandere, deve essere informato che il «cocchiume» è il tappo della botte. Pertanto il mangione che ama «incoconarse» è assimilabile alla botte colma sino al cocchiume. Insomma, di «cocon» ce n’è due, uguali per suono, ma ben diversi per funzione: l’uno è sinonimo di crocchia; l’altro proviene dal verbo calcare, pigiare, ovvero «otturare, tappare». Difatti, esiste anche un «coccone» registrato dal Tommaseo con il significato di «tappo che si pone alla bocca delle artiglierie perché non v’entri acqua o altro mentre non s’adoperano». (Patetici i tempi delle armi da fuoco munite di turacciolo antipioggia, ma forse ancor più quelli in cui si sperava di far cessare le guerre incitando a mettere fiori nei nostri cannoni)”.

  2. Larry

    Applausi!
    Tra qualche giorno sarà pubblicato un post in cuiriutilizzo e spiego il termine, ma mica così bene!
    Hai troppi punti, non posso dartene, ma moralmente ne guadagneresti svariate decine.

  3. AB

    sulla funzionalità di “willst du mit mir ins Bett kommen” non mi esprimo, ma per puro amore di scienza e nell’ottica di un approfondimento dei rapporti fra Italia e Austria/Germania/Svizzera/Liechtenstein, mi sento di dire che

    – willst du mit mir ins Bett gehen
    e
    – willst du mit mir schlafen

    dovrebbero garantire maggiori possibilità di successo ;-)

  4. Larry

    Ah!
    Quindi non capivano!
    Non è che mi rifiutavano perché sono un cesso….non capivano….ha i suoi lati confortanti la cosa.

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